Egitto: scontro aperto tra presidente e Alta Corte sulla riapertura del Parlamento
Mentre centinaia di migliaia di persone, in gran parte sostenitori dei Fratelli musulmani,
esultavano in Piazza Tahrir per il decreto del presidente Morsi per ridare vita al
Parlamento, l'Alta Corte Costituzionale annunciava a sua volta la sospensione dello
stesso decreto. Il Parlamento, a maggioranza islamista, era stato sciolto dal Consiglio
Supremo delle Forze Armate il 15 giugno, dopo che la Corte Costituzionale aveva dichiarato
illegittima la legge elettorale sulla base della quale era stato eletto, tra novembre
e gennaio, un terzo dei deputati. Del decreto proposto dal presidente e del braccio
di ferro in atto tra poteri in Egitto, Fausta Speranza ha parlato con il prof.
Claudio Lo Jacono, direttore della rivista Oriente moderno:
R. – Io credo
che fondamentalmente Morsi abbia cercato di accelerare un processo di “travaso” -
diciamo - del potere dall’apparato militare all’apparato civile: chiede cioè una misura
che possa agevolarlo nel suo lavoro, perché avere un parlamento che non è schierato
sulle sue posizioni, renderebbe il suo lavoro molto, molto complicato. Di fatto il
potere, se si va a vedere oltre l’apparenza, è sempre nelle mani dell’apparato militare:
il Comitato Supremo delle Forze Armate ha ancora una fortissima capacità di incidere
sulla vita politica ed economica del Paese. Perciò il tentativo di Morsi era quello
di guadagnare credibilità, ma l’unico modo per farlo era di vanificare la misura che
era stata presa dalla Corte Costituzionale egiziana, che aveva dichiarato invalide
le ultime prove elettorali.
D. – In ogni caso, tutti questi colpi di scena,
che si susseguono in queste settimane cruciali per la transizione in Egitto, sembrano
avere lo stesso significato: un braccio di ferro tra presidente e Fratelli musulmani
da una parte, militari e potere giudiziario dall’altra. E’ così?
R. – E’ esattamente
questo: è ancora una situazione d’instabilità, di fatto, dell’assetto politico istituzionale
dell’Egitto. Ci sono ancora in ballo delle decisioni fondamentali di chi comanderà
il Paese, di chi lo guiderà. Un momento in cui ci sono due protagonisti, due co-protagonisti:
ognuno di questi non vuole cedere del tutto all’altro. Già è stato importante che
sia stata accettata la nomina di Morsi, ma l’apparato militare vuole rimanere fortemente
in una posizione da cui condizionare gli equilibri e gli assetti del Paese, interni
e anche internazionali probabilmente.
D. – In qualche modo nella dialettica
della democrazia c’è il compromesso e il braccio di ferro: questa, però, sembra una
situazione un po’ diversa in cui alcuni poteri sembrano in bilico…
R. – Certo,
perché questo grandissimo cambiamento nel più grande Paese arabo si è mosso tutto
sul filo tra insurrezione della piazza e – diciamo – cambiamento istituzionale e costituzionale.
La piazza in qualche modo vuole far sentire la sua voce, anche forte dei suoi quasi
mille morti avuti durante il periodo di Mubarak. Questo condiziona parecchio gli equilibri,
anche perché è una piazza che ha appoggiato per alcuni versi il cambiamento democratico,
ma non tutta schierata con Morsi – anche dalle elezioni si è vista questa spaccatura
a metà del Paese – e che però sta lì come un convitato e neanche tanto assente. Ogni
tanto si raduna, fa sentire che c’è e che vuole in qualche modo un cambiamento in
chiave proprio democratica, proprio come la intendiamo noi all’occidentale. E’ una
piazza che sta chiedendo questo ed è uno strumento non particolarmente gradito agli
apparati istituzionali.