2012-07-07 19:16:05

Il primo bimbo lasciato nella "Culla della Vita" a Milano: tantissime richieste di adozione da tutta Italia


Pesa poco più di un chilo ed è nato una settimana fa il bimbo lasciato nella "Culla della Vita" della clinica Mangiagalli di Milano, una versione moderna della medioevale "ruota degli esposti". La struttura, nata nel 2007, proprio per prevenire il fenomeno di abbandoni drammatici, come quelli nei cassonetti, che mettono a rischio la vita dei neonati, non era mai stata utilizzata. “Si tratta di un gesto d’amore di una mamma in difficoltà che ha voluto donare la vita a suo figlio”: questo il commento di Marco Griffini presidente dell’Aibi, Associazione nazionale Amici dei Bambini. Cecilia Seppia lo ha intervistato:RealAudioMP3

R. – Diciamo che proprio il nome, “Culla della Vita”, dà il significato di questa gesto: questa, donna, questa mamma, non ha abbandonato, ha donato! Speriamo che adesso non ci sia "accanimento" da parte delle forze dell’ordine nel rintracciare questa donna. Questa donna è stata chiara nel suo gesto: non l’ha abbandonato perché non dimentichiamoci che quando capitano questi casi sono, purtroppo, la punta di un iceberg, perché la maggior parte di questi bambini vengono lasciati in posti dove non si troveranno mai. Poi, certamente, come tutte le volte che c'è un "abbandono" di questa natura, sono tantissime le richieste di adozione. Questo è un secondo significato che il gesto vuole mettere in luce, come l’adozione sia un fatto naturale.

D. – Le difficoltà economiche, la precarietà lavorativa e abitativa, l’irregolarità per quanto riguarda gli immigrati, sono tanti fattori che possono portare una mamma a compiere questo gesto. Però, fondamentalmente lei dice: la vita è stata tutelata, la vita ha vinto...

R. – Questa madre, vivendo a Milano, avrebbe potuto tranquillamente abortire, non portare a termine la gravidanza. Ha voluto portarla a termine e ha consegnato il bambino a una struttura protetta. Quindi io non vedo la disperazione, questo è un gesto di speranza! La disperazione è nell’aborto, è nell’uccisione della vita, nel fare del male ai propri piccoli.

D. - Dietro queste donne, queste mamme, che compiono questi gesti drammatici, c’è una vita di solitudine... Che cosa fare per loro, come aiutarle?

R. – Noi abbiamo presentato una proposta in Parlamento che è l’adozione del nascituro. Si dà la possibilità a queste donne che sono in un momento di disperazione, in un momento di difficoltà, di poter dare in adozione il nascituro, il bambino che hanno in gestazione e infatti è definita “adozione in pancia”; salvo poi dare la possibilità a queste madri, una volta che il bambino nasce, di poter rinunciare all’adozione e di tenersi il bambino. Questo vuol dire mettersi a fianco di questa donna, dicendo: ho già adottato e adotto tuo figlio, se poi lo vuoi tenere, una volta che nasce, lo puoi tranquillamente fare. Questa è una soluzione, che magari fa discutere chi non comprende le finalità, però è un sistema innovativo, per quanto riguarda l’Italia - negli Stati Uniti è ormai una realtà da 30 anni - che ha dato la possibilità a migliaia di donne di evitare l’aborto e a moltissime di queste mamme di tenere il bambino, ad altre invece di darlo in adozione mantenendo anche i rapporti con la famiglia che l’ha adottato.

D. - Il direttore della clinica Mangiagalli, facendo riferimento ai dati e all’esperienza dell’ospedale, ha detto che non c’è una gran differenza negli abbandoni tra italiani e stranieri, non c’è una nazionalità che prevale sulle altre. E’ così?

R. – Mi pare che ormai siamo arrivati al 50 per cento, almeno per quanto riguarda i dati che abbiamo dei bambini accolti nelle strutture di accoglienza. Ormai siamo arrivati al 50 per cento: 50 per cento italiani e 50 per cento figli di immigrati, di stranieri. Vuol dire che le situazioni di emarginazione non sono più importanti per quanto riguarda le famiglie straniere.







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