"Un matrimonio": la fiction familiare di Pupi Avati
Trattenuto a Bologna per motivi di salute di un familiare, Pupi Avati non ha mancato
di far sentire la sua voce al FilmFest di Taormina per presentare la sua nuova
fiction televisiva "Un matrimonio", dedicata alla famiglia, intessuta di ricordi e
di affetti. Il servizio di Luca Pellegrini:
Ne è convinto,
Pupi Avati: il cinema fatto con una certa ambizione, quello d’autore, sta vivendo
un’emarginazione drammatica. La televisione per lui non è una fuga, ma un nuovo modo
di potersi esprimere scendendo in profondità nella psicologia dei suoi personaggi.
Si è semplicemente voltato indietro, gettando lo sguardo sulla sua famiglia, e così
è nata l’idea di girare "Un matrimonio", una fiction in sei puntate che saranno trasmesse
da Rai Uno alla fine dell’anno. Abbiamo chiesto al regista bolognese quali
sono i motivi per i quali ha voluto immergersi in questo nuovo lavoro televisivo.
R.
– Anzitutto il fatto che ieri ha coinciso con la ricorrenza del 48.mo anno di matrimonio
e quindi una conoscenza di questo “istituto” profondissima, contrariamente a quello
che avviene: si parla molto di famiglia, di matrimoni, di unioni e il più delle volte
da parte di chi questo tipo di esperienza e di conoscenza non l’ha vissuta. Poi perché
mi sembra che se la famiglia sta vivendo, ormai da decenni, una sua crisi progressiva
è un tentativo di essere rimessa continuamente in discussione attraverso interpretazioni,
soprattutto alternative, che attengono tutte e comunque a quella forma di relativismo,
della quale ha parlato - dal suo primo pronunciamento - Benedetto XVI. Io penso che
la crisi del matrimonio sia alla base di questo tipo di interpretazione – a mio avviso
– scorretta ed egoistica. Allora occuparsi di matrimonio oggi è sicuramente molto
provocatorio; dare il titolo a un lungo racconto – di 600 minuti – appunto “Un matrimonio”
e farlo durare cinquant’anni, mi è parsa un’opportunità oggi provvista di senso.
D.
- Al Teatro Antico di Taormina ieri sera avrebbe dovuto tessere un omaggio a Lucio
Dalla. Quale ricordo ha del celebre cantautore?
R. – I ricordi di chi ha vissuto
con Lucio Dalla l’adolescenza: noi abbiamo spartito probabilmente il sogno più grande
della nostra vita, che era appunto quello della musica e che poi lui ha visto realizzato.
Aveva cinque anni meno di me: era un quattordicenne molto talentuoso; io ero un diciannovenne
con un talento molto più contenuto. Per aver spartito lo stesso sogno, nella stessa
band, suonando addirittura lo stesso strumento – lui suonava il clarinetto ed io suonavo
il clarinetto – ha fatto sì che abbia conosciuto Lucio molto profondamente come essere
umano da ragazzino e poi ritrovarlo come un grande poeta, un grande autore, con un
successo riconosciuto in gran parte non soltanto d’Italia, ma d’Europa certamente
e forse anche del mondo, è assolutamente straordinaria e singolarissima. Tuttavia
era rimasto, è rimasto – perché voglio parlarne al presente – quello che era una volta:
un ragazzo straordinariamente generoso, con una voglia ancora di pensare che il futuro
gli riservasse chissà che cosa… Quindi Lucio, con il quale c’è stato un interscambio
frequentissimo, recentissimo – ci chiamavamo la notte e parlavamo a lungo della stagione
che ci attendeva e che era poi la terza, la quarta età, l’anzianità, rassicurandoci
vicendevolmente – è una delle persone meravigliose che la mia vita mi ha dato modo
di incontrare.