Udienza generale. Il Papa: in un mondo che confida in sé, riscopriamo la forza della
preghiera
Benedetto XVI ha dedicato al commento del capitolo 12 della Lettera di S. Paolo ai
Corinzi la catechesi dell’udienza generale di questa mattina, presieduta in Aula Paolo
VI. Il Papa ha approfondito gli aspetti mistici del rapporto dell’Apostolo con Dio,
invitando i cristiani ad nutrire costanza nella preghiera, così da vere in sé la forza
stessa di Dio nella vita di ogni giorno. Di seguito alcuni brani tratti dal testo
pronunciato dal Pontefice:
Cari fratelli e sorelle,
l’incontro
quotidiano con il Signore e la frequenza ai Sacramenti permettono di aprire la nostra
mente e il nostro cuore alla sua presenza, alle sue parole, alla sua azione. La preghiera
non è solamente il respiro dell’anima, ma, per usare un’immagine, è anche l’oasi di
pace in cui possiamo attingere l’acqua che alimenta la nostra vita spirituale e trasforma
la nostra esistenza. E Dio ci attira verso di sé, ci fa salire il monte della santità,
perché siamo sempre più vicini a Lui, offrendoci lungo il cammino luci e consolazioni.
Questa è l’esperienza personale a cui san Paolo fa riferimento nel capitolo 12 della
Seconda Lettera ai Corinzi, sul quale desidero soffermarmi oggi. Di fronte a chi contestava
la legittimità del suo apostolato, egli non elenca le comunità che ha fondato, i chilometri
che ha percorso; non si limita a ricordare le difficoltà e le opposizioni che ha affrontato
per annunciare il Vangelo, ma indica il suo rapporto con il Signore, un rapporto così
intenso da essere caratterizzato anche da momenti di estasi, di contemplazione profonda
(cfr 2 Cor 12,1); quindi non si vanta di ciò che ha fatto, della sua forza,
ma si vanta dell’azione di Dio in lui e tramite lui. Con grande pudore egli racconta,
infatti, il momento in cui visse l’esperienza particolare di essere rapito sino al
cielo di Dio. Egli ricorda che quattordici anni prima dall’invio della Lettera «fu
rapito fino al terzo cielo» (v. 2). Con il linguaggio e i modi di chi racconta ciò
che non si può raccontare, san Paolo parla di quel fatto addirittura in terza persona;
afferma che un uomo fu rapito nel «giardino» di Dio, in paradiso. La contemplazione
è così profonda e intensa che l’Apostolo non ricorda neppure i contenuti della rivelazione
ricevuta, ma ha ben presenti la data e le circostanze in cui il Signore lo ha afferrato
in modo così totale, lo ha attirato a sé, come aveva fatto sulla strada di Damasco
al momento della sua conversione (cfr Fil 3,12).
San Paolo continua
dicendo che proprio per non montare in superbia per la grandezza delle rivelazioni
ricevute, egli porta in sé una «spina» (2 Cor 12,7), una sofferenza, e supplica
con forza il Risorto di essere liberato dall’inviato del Maligno, da questa spina
dolorosa nella carne. Per tre volte – riferisce – ha pregato insistentemente il Signore
di allontanare questa prova. Perché è in questa situazione che, nella contemplazione
profonda di Dio, durante la quale «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno
pronunciare» (v. 4), riceve risposta alla sua supplica. Il Risorto gli rivolge una
parola chiara e rassicurante: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta
pienamente nella debolezza» (v. 9).
Il commento di Paolo a queste parole può
lasciare stupiti, ma rivela come egli abbia compreso che cosa significa essere veramente
apostolo del Vangelo. Esclama, infatti: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie
debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie
debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte
per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (vv. 9b-10). (…)
Soffermiamoci ancora un momento su questo fatto avvenuto durante gli anni in cui san
Paolo visse in silenzio e in contemplazione, prima di iniziare a percorrere l’Occidente
per annunciare Cristo, perché questo atteggiamento di profonda umiltà e fiducia di
fronte al manifestarsi di Dio è fondamentale anche per la nostra preghiera e per la
nostra vita (...)
Anzitutto, di quali debolezze parla l’Apostolo? Non lo dice,
ma il suo atteggiamento fa comprendere che ogni difficoltà nella sequela di Cristo
e nella testimonianza del suo Vangelo può essere superata aprendosi con fiducia all’azione
del Signore. San Paolo è ben consapevole di essere un «servo inutile» (…),
un «vaso di creta» (2 Cor 4,7), in cui Dio pone la ricchezza e la potenza della
sua Grazia. In questo momento di intensa preghiera contemplativa, san Paolo comprende
con chiarezza come affrontare e vivere ogni evento, soprattutto la sofferenza, la
difficoltà, la persecuzione: nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza,
si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno
e forza. (…) L’Apostolo comunica ai cristiani di Corinto e anche a noi che «il momentaneo,
leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna
di gloria», in realtà (v. 17). Nella misura in cui cresce la nostra unione con il
Signore e si fa intensa la nostra preghiera, anche noi andiamo all’essenziale e comprendiamo
che non è la potenza dei nostri mezzi, delle nostre virtù, delle nostre capacità che
realizza il Regno di Dio, ma è Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra
debolezza, la nostra inadeguatezza all’incarico. Dobbiamo avere l’umiltà di non confidare
in noi stessi, ma di lavorare nella vigna del Signore, affidandoci a Lui come fragili
«vasi di creta».
(…) Solo la fede, il confidare nell’azione di Dio è la garanzia
di non lavorare invano. Così la Grazia del Signore è stata la forza che ha accompagnato
san Paolo nelle immani fatiche per diffondere il Vangelo e il suo cuore è entrato
nel cuore di Cristo, diventando capace di condurre gli altri verso Colui che è morto
ed è risorto per noi.
Nelle preghiere noi apriamo il nostro animo al Signore
affinché Egli venga ad abitare la nostra debolezza, trasformandola in forza per il
Vangelo. Ed è ricco di significato anche il verbo greco con cui Paolo descrive questo
dimorare del Signore nella sua fragile umanità (…) L’intensa contemplazione di Dio
sperimentata da san Paolo richiama quella dei discepoli sul monte Tabor, quando, vedendo
Gesù trasfigurarsi e risplendere di luce, Pietro gli disse: «”Rabbì, è bello per noi
essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Non sapeva
infatti che cosa dire, perché erano spaventati», aggiunge S. Marco (Mc 9,5-6).
Contemplare il Signore è, allo stesso tempo, affascinante e tremendo: affascinante
perché Egli ci attira a sé e rapisce il nostro cuore verso l’alto, portandolo alla
sua altezza dove sperimentiamo la pace, la bellezza del suo amore; tremendo perché
mette a nudo la nostra debolezza umana, la nostra inadeguatezza, la fatica di vincere
il Maligno che insidia la nostra vita, quella spina conficcata anche nella nostra
carne. Nella preghiera, nella contemplazione quotidiana del Signore, noi riceviamo
la forza dell’amore di Dio e sentiamo che sono vere le parole di san Paolo ai cristiani
di Roma: «Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati,
né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura
potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm
8,38-39).
In un mondo in cui rischiamo di confidare solamente sull’efficienza
e la potenza dei mezzi umani, (…) siamo chiamati a riscoprire e testimoniare la potenza
della preghiera, con la quale cresciamo ogni giorno nel conformare la nostra vita
a quella di Cristo, il quale - come afferma Paolo - «fu crocifisso per la sua debolezza,
ma vive per la potenza di Dio. E anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo con lui
per la potenza di Dio a vostro vantaggio» (2 Cor 13,4).
Cari amici,
nel secolo scorso, Albert Schweitzer, teologo protestante e premio Nobel per la pace,
affermava che «Paolo è un mistico e nient’altro che un mistico», cioè un uomo veramente
innamorato di Cristo e così unito a Lui, da poter dire: Cristo vive in me. La mistica
di san Paolo non si fonda soltanto sugli eventi eccezionali da lui vissuti, ma anche
sul quotidiano e intenso rapporto con il Signore che lo ha sempre sostenuto con la
sua Grazia (...) Anche nella nostra vita di preghiera possiamo avere momenti di particolare
intensità, in cui sentiamo più viva la presenza del Signore, ma è importante la costanza,
la fedeltà del rapporto con Dio, soprattutto nelle situazioni di aridità, di difficoltà,
di sofferenza. Soltanto se siamo afferrati dall’amore di Cristo, saremo in grado di
affrontare ogni avversità come Paolo, convinti che tutto possiamo in Colui che ci
dà la forza (cfr Fil 4,13). Quindi, quanto più diamo spazio alla preghiera,
tanto più vedremo che la nostra vita si trasformerà e sarà animata dalla forza concreta
dell’amore di Dio. Così avvenne, ad esempio, per la beata Madre Teresa di Calcutta,
che nella contemplazione di Gesù (…) trovava la ragione ultima e la forza incredibile
per riconoscerlo nei poveri e negli abbandonati, nonostante la sua fragile figura.
La contemplazione di Cristo nella nostra vita non ci estranea, come già detto, dalla
realtà, bensì ci rende ancora più partecipi delle vicende umane, perché il Signore,
attirandoci a sé nella preghiera, ci permette di farci presenti e prossimi ad ogni
fratello nel suo amore.