2012-06-10 08:58:56

Sierra Leone: un missionario saveriano al fianco dei bambini vittime di guerra e violenza


In Sierra Leone, Paese attraversato fino al 2002 da una sanguinosa guerra civile, un missionario italiano si prende cura - da oltre 30 anni - dei minori senza famiglia, e in particolare di quanti durante il conflitto furono arruolati come bambini soldato: è il saveriano padre Giuseppe Berton, fondatore del "Family Homes Movement". A Davide Maggiore ha spiegato qual è il principio che guida le sue iniziative:RealAudioMP3

R. – Ho cominciato a prendermene cura, in questo senso: piuttosto che creare orfanotrofi o istituti, chiedevo alle famiglie di accoglierli come parte della loro famiglia. Dato che questa mentalità della famiglia estesa esiste mi preoccupavo di far sì che questa cosa fosse finanziariamente possibile. Loro mi aiutavano ad educarli, creando un ambiente di famiglia, ed io cercavo di assistere la famiglia rendendo tutto ciò possibile.

D. – Cosa ha rappresentato, in questi anni, per i minori della Sierra Leone, il "Family Homes Movement"?

R. – In passato era più “famiglia”, perché erano giovani. Adesso sono cresciuti ed anche loro hanno le famiglie, quindi l’assistenza è di tutt’altro tipo. Però, si tratta comunque di un’assistenza valida nel senso che hanno un punto di riferimento.

D. – Per quanto riguarda i bambini soldato, l’urgenza è anche e soprattutto quella di un loro re-inserimento nella società…

R. – Il loro re-inserimento nella società diventa ancora più impegnativo, perché ormai sono adulti e quindi devono stabilirsi come persone responsabili. E non sempre ne hanno la capacità. C’è un’eccessiva aggressività, anche nel lavoro e nel sociale e quindi, di tanto in tanto, si trovano in difficoltà anche dinanzi alla legge. L’aggressività sarà quasi impossibile eliminarla. Speriamo, però, che sparisca nei loro figli. La gioventù soffre per la mancanza di sentirsi protetti. Ma quel che definiscono “il doversi arrangiare” qualche volta si spinge al di là dell’accettabile.

D. – C’è stata una riconciliazione, a livello della popolazione, nei 10 anni che sono trascorsi dalla fine del conflitto?

R. – Non è che la riconciliazione sia un problema. Anzi, dicono: “Dobbiamo vivere, viviamo insieme”, e si riconoscono tutti come vittime. C’è chi è stato vittima e chi ha colpito. In realtà, per la gioventù è stato proprio così.

D. – Cos’ha significato, per lei, in un contesto come questo, essere missionario ed annunciare Cristo ed il Vangelo?

R. – Per me è stato un camminare insieme, con il loro passo, portando pazienza quando si fanno due passi avanti ed uno indietro, aspettando che producano un qualcosa di bello. Bisogna avere davvero molta pazienza. Ma non è mica difficile avere pazienza se si considera che cosa hanno passato.

D. – In questi decenni di missione, la Sierra Leone le ha anche mostrato esperienze di segno positivo?

R. – Altroché! Ho imparato un sacco di cose, specialmente quella di saper accettare quel che viene, quello che capita. Lì c’è la Provvidenza, e lasciamo che operi. Noi siamo presenti oggi e saremo presenti domani. E loro questo senso della provvidenza, della fiducia in Dio, ce l’hanno davvero molto forte.







All the contents on this site are copyrighted ©.