2012-06-06 14:38:12

Padre Neuhaus: ondata xenofoba contro le comunità africane in Israele


C’è puro razzismo dietro agli attacchi contro gli immigrati in Israele. In meno di un mese, prima a Tel Aviv poi a Gerusalemme, si sono registrati atti di violenza ai danni della comunità sud sudanese e di quella eritrea. Due giorni fa, a Gerusalemme, una casa dove alloggiavano immigrati irregolari fuggiti dall’Eritrea, è stata data alle fiamme con l’intenzione evidente di voler uccidere. Lo conferma padre David Neuhaus, coordinatore in Israele della commissione della Chiesa cattolica impegnata a servizio dei lavoratori immigrati e richiedenti asilo. L’intervista è di Francesca Sabatinelli:RealAudioMP3

R. – C’è un’ondata di xenofobia. Qui ci sono 60 mila africani, povera gente in cerca di asilo. Arrivano in Israele e trovano una vita difficilissima. Vivono in quartieri dove ci sono altri poveri, ebrei di qui, che avvertono questa presenza come una minaccia e la tensione esplode quando non c’è una politica chiara del governo, quando non c’è un’educazione da parte del governo nei confronti del popolo israeliano, che si sente sempre minacciato. Ciò che è accaduto il 23 maggio scorso è entrato nella memoria, perché per la prima volta abbiamo assistito a una manifestazione violenta: la gente ha compiuto atti di violenza contro ogni africano che passava. Prima di questo, c’erano stati alcuni casi di donne violentate, i giornali hanno subito attribuito la responsabilità agli africani. Coloro che voglio attizzare la violenza, hanno usato questi fatti per accendere la miccia e alimentare la rabbia di questa popolazione, che si sente già davvero molto minacciata per la presenza degli africani nei quartieri poveri di Tel Aviv. La sorpresa è ciò che è accaduto a Gerusalemme pochi giorni fa: qui non ci sono molti africani che chiedono asilo, eppure alcuni razzisti hanno dato fuoco a un palazzo in cui vivono quasi nella totalità immigrati africani. E’ stato un atto di violenza molto, molto grave.

D. – La politica come sta reagendo nei confronti della presenza degli immigrati? Gli stessi politici sono divisi tra di loro: alcuni sono molto duri nel linguaggio contro queste persone...

R. – Prima dei fatti del 23 maggio, alcuni dei nostri responsabili – il ministro degli Interni (Eli Yishai, partito Shas, destra - ndr), il nostro premier e anche alcuni esponenti del parlamento avevano fatto discorsi molto aggressivi. Dopo il 23 maggio, alcuni hanno realizzato che alle parole seguono gli atti e hanno usato altri toni, hanno richiamato alla responsabilità, hanno denunciato che non si può reagire con la violenza. Poi l’incendio appiccato ad un appartamento, qui c’era la volontà di uccidere gente che dormiva. Quindi, ora, ancora una volta, i politici forse dovranno realizzare che le loro parole contribuiscono a questo odio. Il governo deve decidere che cosa fare, non si può lasciare la situazione com’è.

D. – A Tel Aviv, la situazione degli africani è estremamente indigente: si trovano a convivere con ebrei di ceti sociali molto bassi, che pensano di essere a rischio. Quindi, la questione del rifiuto di queste persone nasce dalla povertà, da ragioni economiche o nasce dalla paura di avere dentro i confini persone non ebree?

R. – C’è anche questo e inoltre credo ci siano le questioni economiche. C’è la xenofobia tra questi politici che provocano i poveri ebrei, il cui primo pensiero credo sia di tipo economico. Dietro, però, c’è la xenofobia di chi accendere il fuoco razzista.

D. – In questo clima, è di recente approvazione una legge sull’immigrazione clandestina molto, molto dura...

R. – Molto dura. Chi entra nello Stato d’Israele clandestinamente può essere messo in prigione fino a tre anni. Israele non vuole più che l’arrivo di immigrati dall’Egitto e crede di fermarli con la minaccia di essere imprigionati. Israele sta costruendo allo stesso momento un muro nel tentativo di mettere fine a quella che gli israeliani chiamano “infiltrazione”. Anche le parole sono dure. Queste persone non vengono sempre identificate come persone che fuggono dalla morte, dalla fame e che arrivano qui per chiedere asilo: l’idea che prevale è quella di una persona infiltrata illegalmente, quindi di un criminale che deve essere messo in prigione.

D. – Lei, come coordinatore della Commissione lavoro pastorale tra i migranti, che tipo di indicazioni darà alla Commissione? Come volete muovervi in questa situazione così delicata anche per la Chiesa cattolica?

D. – Noi dobbiamo lavorare con quelle organizzazioni, con gli ebrei che lavorano contro il razzismo e che riconoscono la vocazione della Terra Santa, dove la gente viene e si aspetta di trovare cose differenti dalla violenza e dal rifiuto. La Chiesa è molto debole, siamo pochissimi, ma dobbiamo comunque parlare in maniera forte. Per questo abbiamo pubblicato, come Assemblea degli Ordinari, una dichiarazione sugli avvenimenti del 23 maggio. E’ molto importante parlare con un linguaggio chiaro, che capisce la problematica ma non accetta la violenza come soluzione. La vocazione della Chiesa è chiara e c’è un lavoro immenso da fare. La nostra Commissione include persone che vengono da questi Paesi: abbiamo una suora eritrea che lavora con gli eritrei, altri che lavorano con i sudanesi, con i filippini e con gli indiani.

D. – Avete intenzione di entrare in contatto con il governo?

R. – Noi non possiamo cambiare le decisioni che sono prese. Dobbiamo vivere con le decisioni, ma continuiamo ad avere contatti con alcuni ministri e responsabili per poter aiutare questa povera gente che vive in una situazione molto, molto difficile.







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