Padre Neuhaus: ondata xenofoba contro le comunità africane in Israele
C’è puro razzismo dietro agli attacchi contro gli immigrati in Israele. In meno di
un mese, prima a Tel Aviv poi a Gerusalemme, si sono registrati atti di violenza ai
danni della comunità sud sudanese e di quella eritrea. Due giorni fa, a Gerusalemme,
una casa dove alloggiavano immigrati irregolari fuggiti dall’Eritrea, è stata data
alle fiamme con l’intenzione evidente di voler uccidere. Lo conferma padre David
Neuhaus, coordinatore in Israele della commissione della Chiesa cattolica impegnata
a servizio dei lavoratori immigrati e richiedenti asilo. L’intervista è di Francesca
Sabatinelli:
R. – C’è un’ondata
di xenofobia. Qui ci sono 60 mila africani, povera gente in cerca di asilo. Arrivano
in Israele e trovano una vita difficilissima. Vivono in quartieri dove ci sono altri
poveri, ebrei di qui, che avvertono questa presenza come una minaccia e la tensione
esplode quando non c’è una politica chiara del governo, quando non c’è un’educazione
da parte del governo nei confronti del popolo israeliano, che si sente sempre minacciato.
Ciò che è accaduto il 23 maggio scorso è entrato nella memoria, perché per la prima
volta abbiamo assistito a una manifestazione violenta: la gente ha compiuto atti di
violenza contro ogni africano che passava. Prima di questo, c’erano stati alcuni casi
di donne violentate, i giornali hanno subito attribuito la responsabilità agli africani.
Coloro che voglio attizzare la violenza, hanno usato questi fatti per accendere la
miccia e alimentare la rabbia di questa popolazione, che si sente già davvero molto
minacciata per la presenza degli africani nei quartieri poveri di Tel Aviv. La sorpresa
è ciò che è accaduto a Gerusalemme pochi giorni fa: qui non ci sono molti africani
che chiedono asilo, eppure alcuni razzisti hanno dato fuoco a un palazzo in cui vivono
quasi nella totalità immigrati africani. E’ stato un atto di violenza molto, molto
grave.
D. – La politica come sta reagendo nei confronti della presenza degli
immigrati? Gli stessi politici sono divisi tra di loro: alcuni sono molto duri nel
linguaggio contro queste persone...
R. – Prima dei fatti del 23 maggio, alcuni
dei nostri responsabili – il ministro degli Interni (Eli Yishai, partito Shas, destra
- ndr), il nostro premier e anche alcuni esponenti del parlamento avevano fatto discorsi
molto aggressivi. Dopo il 23 maggio, alcuni hanno realizzato che alle parole seguono
gli atti e hanno usato altri toni, hanno richiamato alla responsabilità, hanno denunciato
che non si può reagire con la violenza. Poi l’incendio appiccato ad un appartamento,
qui c’era la volontà di uccidere gente che dormiva. Quindi, ora, ancora una volta,
i politici forse dovranno realizzare che le loro parole contribuiscono a questo odio.
Il governo deve decidere che cosa fare, non si può lasciare la situazione com’è.
D.
– A Tel Aviv, la situazione degli africani è estremamente indigente: si trovano a
convivere con ebrei di ceti sociali molto bassi, che pensano di essere a rischio.
Quindi, la questione del rifiuto di queste persone nasce dalla povertà, da ragioni
economiche o nasce dalla paura di avere dentro i confini persone non ebree?
R.
– C’è anche questo e inoltre credo ci siano le questioni economiche. C’è la xenofobia
tra questi politici che provocano i poveri ebrei, il cui primo pensiero credo sia
di tipo economico. Dietro, però, c’è la xenofobia di chi accendere il fuoco razzista.
D.
– In questo clima, è di recente approvazione una legge sull’immigrazione clandestina
molto, molto dura...
R. – Molto dura. Chi entra nello Stato d’Israele clandestinamente
può essere messo in prigione fino a tre anni. Israele non vuole più che l’arrivo di
immigrati dall’Egitto e crede di fermarli con la minaccia di essere imprigionati.
Israele sta costruendo allo stesso momento un muro nel tentativo di mettere fine a
quella che gli israeliani chiamano “infiltrazione”. Anche le parole sono dure. Queste
persone non vengono sempre identificate come persone che fuggono dalla morte, dalla
fame e che arrivano qui per chiedere asilo: l’idea che prevale è quella di una persona
infiltrata illegalmente, quindi di un criminale che deve essere messo in prigione.
D.
– Lei, come coordinatore della Commissione lavoro pastorale tra i migranti, che tipo
di indicazioni darà alla Commissione? Come volete muovervi in questa situazione così
delicata anche per la Chiesa cattolica?
D. – Noi dobbiamo lavorare con quelle
organizzazioni, con gli ebrei che lavorano contro il razzismo e che riconoscono la
vocazione della Terra Santa, dove la gente viene e si aspetta di trovare cose differenti
dalla violenza e dal rifiuto. La Chiesa è molto debole, siamo pochissimi, ma dobbiamo
comunque parlare in maniera forte. Per questo abbiamo pubblicato, come Assemblea degli
Ordinari, una dichiarazione sugli avvenimenti del 23 maggio. E’ molto importante parlare
con un linguaggio chiaro, che capisce la problematica ma non accetta la violenza come
soluzione. La vocazione della Chiesa è chiara e c’è un lavoro immenso da fare. La
nostra Commissione include persone che vengono da questi Paesi: abbiamo una suora
eritrea che lavora con gli eritrei, altri che lavorano con i sudanesi, con i filippini
e con gli indiani.
D. – Avete intenzione di entrare in contatto con il governo?
R.
– Noi non possiamo cambiare le decisioni che sono prese. Dobbiamo vivere con le decisioni,
ma continuiamo ad avere contatti con alcuni ministri e responsabili per poter aiutare
questa povera gente che vive in una situazione molto, molto difficile.