2012-05-28 14:22:29

Medio Oriente: settimana di preghiera per la pace, promossa dal Consiglio mondiale delle Chiese


Inizia oggi la Settimana di preghiera per la pace in Palestina e Israele. Si tratta di un’iniziativa del Forum ecumenico del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc). L’obiettivo è anche dare un chiaro segnale al mondo politico oltre che alla comunità civile perchè non sia dimenticata la difficile situazione di tutte le parti coinvolte nel conflitto israelo-palestinese e perché si continui a cercare delle soluzioni. Per capire l’attuale fase di stallo sotto diversi punti di vista, Fausta Speranza ha intervistato Janiki Cingoli, direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente:RealAudioMP3

R. – I negoziati sono oramai bloccati dal dicembre 2010 e i tentativi di rivitalizzarli, fatti dal re di Giordania, non hanno dato frutti. Di fatto c’è una situazione di attesa anche dei risultati delle prossime elezioni americane: di sapere se Obama sarà riconfermato o meno. C’è però anche uno stallo delle violenze, nel senso che in questa situazione – mi pare – che la parte palestinese non prema più di tanto, al di là di qualche gesto dimostrativo, e quindi c’è un po’ una situazione di sospensione: per certi versi si potrebbe anche dire che ognuno è interessato un po’ al mantenimento dello status quo.

D. – Invece che cosa si potrebbe e si dovrebbe fare per una pace che abbia veramente il significato di questo termine?

R. – Quello che si deve fare è chiaro abbastanza a tutti: creare due Stati, con Gerusalemme capitale dei due Stati; con confini che siano basati grossomodo sui confini del ’67, con scambi territoriali concordati, la cui entità – se il 2-3 o il 4 per cento – è una cosa da valutare insieme, per consentire ad Israele di includere alcuni grandi insediamenti lungo la linea verde. Quindi i temi della pace possibile sono abbastanza chiari, il problema è se c’è la volontà politica di farli. Da questo punto di vista è importante la recente formazione di un governo di unità nazionale in Israele, che arriva ormai ad avere una maggioranza di 94 deputati su 120, perché il Kadima, il maggior partito dell’opposizione, è entrato nel governo. Questo mette di fatto Netanyahu nelle condizioni di andare avanti con un processo di pace, anche a tappe: il problema è se lui vorrà, quanta pressione gli Stati Uniti vorranno esercitare e così via…

D. – Tra “primavera araba”, emergenza Siria, prima ancora la Libia, ci siamo dimenticati la questione israelo-palestinese?

R. – La questione palestinese è stata spesso strumentalizzata dai regimi arabi per creare consenso all’interno su una questione esterna. Di fatto la “primavera araba” si è focalizzata più sui temi di democrazia interna, sui problemi di economia e di gestione delle miserie di larga parte della popolazione e quindi la questione palestinese, la questione israelo-palestinese, è entrata un po’ in secondo piano. Questo non vuol dire che non vi siano conseguenze: ad esempio, in questo momento, i rapporti di Israele con l’Egitto sono indubbiamente più freddi di quanto non lo fossero all’epoca di Mubarak e Israele rischia di perdere il suo miglior nemico e cioè Assad: è chiaro che se gli insorgenti, che si richiamano grossomodo all’ala sunnita che è la stessa che ha conquistato la maggioranza in Egitto, dovessero prendere il potere, la situazione sarebbe più tesa anche con la Siria. C’è quindi una situazione in cui c’è un isolamento crescente di Israele nel contesto mediorientale, anche se i rapporti di forza – sia interni al Paese, sia nel contesto internazionale – sembrano più favorevoli ad Israele; più favorevoli a breve termine, ma sul medio periodo la situazione rischia di aggravarsi per Israele.







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