Una delegazione di Aiuto alla Chiesa che Soffre ha visitato nei giorni scorsi il vicariato
apostolico di Gambella - capitale dell’omonima regione dell’Etiopia occidentale -
che accoglie numerosi profughi sud-sudanesi. «Se qualcuno dubita dell’esistenza del
maligno, dovrebbe venire qui e osservare quanto sta succedendo» commenta padre Andrzej
Halemba, responsabile internazionale delle sezioni Africa e Asia di Aiuto alla Chiesa
che Soffre (Acs). Nella prefettura apostolica, che confina con il Sud Sudan, si sono
già rifugiate quasi 30mila persone. E ogni giorno ne arrivano di nuove, in maggioranza
donne e bambini. «Facciamo il possibile per aiutarli – afferma il vicario apostolico,
mons. Angelo Moreschi – e tutte le volte che il governo lo permette, inviamo a quella
povera gente assetata, un camion cisterna». Per i rifugiati l’acqua ha un valore incommensurabile,
così come l’assistenza spirituale offerta dai sacerdoti. Numerosi sud-sudanesi sono
infatti cristiani che, dopo tanta strada, possono finalmente trovare il conforto della
Parola di Dio e assistere alla Messa nelle tre cappelle del vicariato costruite per
loro. Le aspettative, però, non sono incoraggianti. Il presidente sudanese Omar al-Bashir
sembra intenzionato a muovere guerra contro il Sud Sudan. E secondo gli esperti uno
scontro bellico tra i due Paesi porterebbe a conseguenze ben più gravi della guerra
civile che, dal 1985 al 2005, ha causato oltre due milioni di morti. «Se non ci sarà
pace – dichiara Eva Maria Kolmann, del dipartimento informazione di Acs – anche la
prossima generazione non conoscerà altro che la paura, la morte, la violenza o la
miseria dei campi profughi». Da Gambella, la Kolmann racconta scene di tragica quotidianità.
Un bambino che gioca con il copertone di una bicicletta, mentre altri piccoli si nascondono
in mezzo ai cespugli. Le madri che guardano i propri figli, sedute su pezzi di stoffa
o sulla nuda terra. E una donna che lava i pochi stracci portati con sé e li stende
ad asciugare su un ramo. Non è semplice documentare la realtà: le macchinette non
sono gradite e pattuglie dell’esercito controllano che i passanti non si avvicinino
per nessun motivo ai rifugiati che riposano ai lati della strada. «Siamo riusciti
a rubare qualche scatto dall’interno della jeep – spiega – ma non eravamo autorizzati
a scendere dalla macchina». Una delle poche immagini riprende una madre, esausta e
denutrita, che si ripara sotto a un albero con i suoi otto bambini. Il termometro
segna 40 gradi e nelle settimane precedenti ci sono stati giorni ben più caldi. Molti
profughi devono camminare per più di 200 kilometri sotto il sole cocente prima di
raggiungere un posto tranquillo. «Come avrà fatto quella donna – si chiede la Kolmann
– ad affrontare quel lungo viaggio, e con otto bambini?». (R.P.)