Festival di Cannes: il mondo visto attraverso il filtro dell'amore
Il mondo visto attraverso il filtro dell’amore. Non ci eravamo sbagliati due giorni
fa, quando avevamo intuito questo motivo dominante nei film in concorso al 65° Festival
di Cannes. I tre titoli che hanno fatto seguito al film d’apertura, Moonrise Kingdom,
lo confermano ampiamente. A incominciare da “After the Battle” di Yousry Nasrallah,
che ci trasporta nell’Egitto contemporaneo, all’indomani delle rivolte popolari che
hanno caratterizzato la primavera araba. In realtà a sentire i protagonisti del film
sembra di essere nell’Italia del “Gattopardo”, quando il principe di Salina affermava
che tutto avrebbe dovuto cambiare perché tutto restasse come prima. I dibattiti fra
i sessi e le classi sociali infuriano: le donne della ricca borghesia del Cairo si
battono per una società laica, mentre i poveri e gli emarginati si sentono tagliati
fuori da una rivoluzione, che non abbatterà le ingiustizie ma finirà per imporre altre
figure di privilegiati. Sullo sfondo di questa complessa situazione, l’impossibile
amore fra una giornalista e un cavaliere delle piramidi agiterà ancor di più le acque.
Nasrallah gioca con i cliché del cinema popolare, un po’ come faceva Yussef Chahine
che a lungo è stato il suo mentore, con una trama a metà fra la commedia sentimentale
e il melodramma sociale e politico. Ma l’importanza del film va al di là della sua
forma ed è la necessità intrinseca di un discorso dal basso, il bisogno di uno sguardo
interno su un fenomeno che le etichette dell’informazione internazionale hanno finito
per rendere invisibile. Ancora l’amore – sebbene mescolato a una di quelle tragiche
svolte che spesso la vita ci impone - è protagonista del film di Jacques Audiard “De
rouille et d’os”. Qui siamo nel sud della Francia, dove sbarca con il suo bambino
un ex-boxeur, uomo senza speranza e senza qualità. Si installa dalla sorella e cerca
lavoro. Ma in realtà l’unica cosa che sa fare è combattere. Ingaggiato come buttafuori
da una discoteca, incontra una ragazza, che lavora come istruttrice di orche marine.
Potrebbe nascerne qualcosa, ma i due sono troppo socialmente distanti. Poi però lei
perde le gambe in un incidente e lui, che trabocca di energia, riesce a ridarle la
fiducia di vivere. In mezzo ci sono digressioni narrative a non finire e il film,
benché benissimo interpretato, risente di una costruzione un po’ meccanica di sceneggiatura,
che finisce per renderlo o prevedibile o esageratamente sorprendente. Totalmente rigoroso
– al pari del suo stile - è invece il discorso che si sviluppa nel film di Ulrich
Seidl, “Paradise: Love”, le cui protagoniste sono donne sole in vacanza in
Kenya. Non è la prima volta che il cinema affronta la questione spinosa del turismo
sessuale, ma qui non è tanto la facile denuncia moralistica a farla da padrona, quanto
piuttosto uno sguardo che indaga la fragilità e la sofferenza degli esseri umani.
Al contrario di quanto avviene nel film di Audiard, in “Paradise: Love” il
senso non viene dai dialoghi o dalle situazioni di sceneggiatura, ma dalla composizione
delle inquadrature o dalla costruzione di scene scabrose, di difficile visione, dove
la violenta tensione si scioglie nell’umana pietà. Alla fine è un mondo di vinti quello
che il film ci lascia in eredità. Un mondo in cui le necessità degli uni e degli altri
non si incontrano né si compensano mai. I giovani adulti africani restano nell'illusione
di quel denaro che cercano vendendo se stessi. Le donne europee restano con i loro
rimpianti di una giovinezza perduta, con i loro corpi pesanti, senza amore.
Bollettino
del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 139