Riprendono a Vienna i colloqui tra l’Aiea, l’agenzia dell’Onu per l’energia nucleare,
e l’Iran. Al centro dell’incontro, che precede i negoziati del 23 maggio a Baghdad,
il programma atomico iraniano di arricchimento dell’uranio. Le posizioni appaiono
ancora distanti: alle accuse di utilizzo militare del nucleare, Teheran risponde di
non avere alcuna intenzione di fermare la propria attività, che - afferma - ha essenzialmente
scopi civili. Sui possibili sviluppi di questa nuova fase di colloqui, Giancarlo
La Vella ha intervistato Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto Affari
Internazionali:
R. - Sul fronte
positivo c’è da dire che ormai sono finite le elezioni interne iraniane, e quindi
gli equilibri di forza nel Paese dovrebbero essere stabilizzati. Se la leadership
che ha la nuova maggioranza, che, è quella degli ayatollah e non più quella del presidente
Ahmadinejad, ha effettivamente intenzione di arrivare ad un accordo, lo può fare senza
temere contraccolpi politici importanti, che avrebbe avuto nella fase elettorale.
Il momento, da questo punto di vista, è favorevole, però non sappiamo ancora quanto
l’Iran sia effettivamente disposto a concedere, quanto voglia andare avanti o quanto,
invece, non preferisca mantenere questa sua ambiguità di fondo - che finora ha sempre
caratterizzato il suo atteggiamento - per quanto riguarda il suo programma nucleare.
Mi auguro che le discussioni portino a qualcosa di concreto e tangibile, perché altrimenti
la situazione rischia di peggiorare rapidamente.
D. - L’Iran è un Paese che
si sente minacciato e se sì, da chi?
R. - Più che minacciato, l’Iran si sente
isolato, anche se gli eventi in Iraq hanno, in qualche maniera, diminuito i suoi timori
e, tutto sommato, anche gli sviluppi in corso nella regione, come anche in Afghanistan.
Malgrado il timore di un ritorno dei talebani, che non sono certo amici dell’Iran,
dovrebbe esser diminuita la percezione di rischio di un dominio degli Stati Uniti.
L’Iran, però, ha forti ambizioni regionali, e quello che sta accadendo in Siria rischia
di indebolirlo in maniera notevole. I leader iraniani dovrebbero calcolare che affermare
questo ruolo attraverso la minaccia nucleare rischia, al contrario, di accrescere
la loro vulnerabilità invece di diminuirla, sia ad attacchi eventuali da parte di
Israele o di altri e sia perché alimenta il desiderio, degli altri Paesi del Golfo,
di allearsi con potenze nemiche o, comunque, avversarie dell’Iran per garantire la
loro sicurezza e per bilanciare un’eventuale crescita di potenza dell’Iran stesso.
Questo è un calcolo che va fatto sul fronte della politica reale che, in qualche modo,
gli iraniani dovranno fare. Non sappiamo bene come percepiscano questo calcolo: l’impressione,
finora, è che siano stati abbastanza avventuristi, nel senso che hanno pensato che,
attraverso un misto di minacce e di attività non controllate, potessero aumentare
il numero di carte nelle proprie mani. Secondo me l’Iran è giunto alla fine di questo
gioco, per cui dovrebbe proprio cambiare tattica, ma non so se ne abbia la capacità
e la volontà.
D. - Alla base di tutto c’è, comunque, una legittima pretesa,
da parte dell’Iran, di sviluppare il nucleare a scopi civili…
R. - Quello sicuramente.
E’ la garanzia che si esplicita nel trattato di non proliferazione, di cui l’Iran
fa parte. Teheran ha questo diritto. Diciamo però che dovrebbe esercitarlo sotto ispezione
internazionale, giustificando e motivando perché avrebbe bisogno di certe quantità
di uranio arricchito per un programma scientifico o anche industriale di sviluppo
del nucleare, dal momento che non ha centrali nucleari - eccetto una - e non ha un’industria
di costruzione delle centrali. Per cui, l’Iran dovrebbe chiarire questa ambiguità.
Per il momento, l’importanza di questo programma o è militare o politica, più che
di sviluppo dell’energia nucleare vera e propria.