Israele: governo di unità nazionale con Likud e Kadima
Svolta nella crisi politica in Israele che stava per sfociare in elezioni anticipate.
In extremis è stato siglato oggi l’accordo per un governo – sempre guidato dal premier
Netanyahu e dal suo partito Likud – che prevede l’ingresso nella maggioranza del partito
centrista di opposizione Kadima. Si tratta praticamente di un esecutivo di unità nazionale,
che avrà il compito di concludere la legislatura. Giancarlo La Vella ne ha
parlato con Eric Salerno, esperto di Medio Oriente del quotidiano Il Messaggero:
R. – Direi proprio
di sì, perché rimangono fuori soltanto le opposizioni a sinistra e si consolida moltissimo
il ruolo del premier Netanyahu e del suo governo, che era un governo di centrodestra
e resta un governo tale, ma molto più forte, grazie all’appoggio di Kadima.
D.
– Che ricadute avrà ora questo governo sul dialogo con i palestinesi?
R. –
Teoricamente ci sono due possibilità per questo governo: fare la pace con i palestinesi
o continuare a prendere tempo. Evidentemente, Netanyahu e Mofaz, nuovo leader di Kadima,
hanno parlato del futuro e in qualche modo hanno deciso insieme di andare avanti fino
alle elezioni dell’anno prossimo, senza anticiparle com’era stato in un primo momento
previsto. L’altra ricaduta importante è che, con un governo di unità nazionale come
questo, Netanyahu appare molto più solido e teoricamente può decidere o di andare
a bombardare l’Iran, a causa del nucleare, oppure anche di non farlo.
D. –
Sussistono ancora delle "anime" contrarie al negoziato con i palestinesi all’interno
di questo esecutivo?
R. – Tutti dicono che vogliono negoziare con i palestinesi,
ma sono i termini del negoziato che sono bloccati. Netanyahu ha sempre detto: “Io
vado avanti fino ad un certo punto, poi basta”. I palestinesi, dalla loro, rifiutano
questo ricatto, alla base del quale c’è il continuo aumento degli insediamenti israeliani
nei Territori occupati, e al momento è tutto fermo. Questo blocco permarrà ancora
a lungo, a meno che non vengano mandati, probabilmente dopo e non prima delle elezioni
americane di novembre, dei segnali ai palestinesi che qualche cosa è cambiata veramente
nella volontà del governo israeliano di arrivare ad una soluzione: ovvero due Stati
per due popoli.
D. – Proprio la costruzione di nuove colonie, secondo te, rimane
un po’ il nodo cruciale da sciogliere, in qualche modo? Bisogna che Israele prenda
una decisione?
R. – Quantomeno deve prendere una decisione di immagine. Deve
far vedere ai palestinesi che qualcosa sta cambiando, che accettano di dialogare almeno
sui punti su cui insistono i palestinesi, per i quali sarebbe importantissimo definire
subito le frontiere del nuovo Stato palestinese. Dopo di che, se gli israeliani vorranno
continuare a costruire in quegli spazi già occupati, sarà un problema diverso. La
comunità internazionale preme comunque per un accordo. Questa è una vecchia idea,
anche del presidente americano Obama: quella di cominciare a definire le frontiere,
per poi andare avanti con il resto.
D. – La Primavera araba, la crisi siriana
hanno messo un po’ in secondo piano la questione israelo-palestinese. Questa cosa
come viene vissuta in ambito israeliano?
R. – Direi che non si guarda più tanto
ai palestinesi, ma si guarda invece con molta preoccupazione all’Egitto, soprattutto.
Poco preoccupante quanto sta accadendo in Siria, perché lì c’è un caos interno che
al momento non rischia di oltrepassare i confini. Al contrario è preoccupante il futuro
dell’Egitto, sia perché non si sa che tipo di governo ci sarà ed anche per la confusione
che c’è in questo momento, soprattutto nel Sinai, regione confinante con Israele,
dove, per ammissione degli stessi egiziani, operano delle bande di qaedisti ed altri
gruppi, che costituiscono un pericolo reale. Lieberman, il ministro degli Esteri israeliano,
ha detto una decina di giorni fa che, secondo lui, in questo momento la questione
dell’Egitto è addirittura molto più pericolosa della questione iraniana.