A Guantanamo il processo contro le presunte menti degli attentati dell’11 settembre
2001
Si è aperto ieri a Guantanamo il processo alle cinque presunte menti degli attentati
dell’11 settembre 2001, che provocarono la morte di 2.976 persone. Gli imputati dovranno
rispondere di fronte a una corte militare statunitense di capi d’accusa che includono
terrorismo, dirottamento aereo, associazione a delinquere, crimini di guerra e strage.
Il processo contro Khalid Shaikh Mohammed, l'uomo che si è autoproclamato la mente
degli attacchi, Aziz Ali, Walid Muhammad Salih Mubarak Bin Attash, Ramzi Binalshibh
e Mustafa Ahmed Adam al-Hawsawi – arrestati nove anni fa – potrebbe durare oltre un
anno. Su quello che è già stato ribattezzato come ‘il processo del secolo’ Stefano
Leszczynski ha intervistato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International
- Italia:
R. - I lunghi
anni di detenzione a Guantanamo, e ancora prima di Guantanamo, in altri centri segreti
di detenzione, ma anche il processo che si celebra davanti ad una commissione militare,
costituiscono fattispecie che sono ben lontane dagli standard internazionali sul processo
equo che spetta a tutti, anche alle persone sospettate di alcuni tra i più efferati
reati compiuti nella storia recente. Il rischio è che un processo di questo genere,
non solo sia irregolare, ma scontenti anche la richiesta di giustizia che arriva ed
è doveroso che arrivi - e Amnesty International appoggia - da parte dei sopravvissuti
e da parte dei parenti delle vittime delle Torri Gemelle.
D. - Il primo quesito
che viene in mente è: perché un processo militare e non un processo civile? Non c’è
il rischio, in questo modo, addirittura di riconoscere a dei presunti terroristi,
o alle organizzazioni terroristiche, una valenza militare processandoli in questo
modo?
R. - Questo è vero. È come dire che è stata combattuta una guerra, gli
sconfitti sono sotto processo, in corte marziale, e li si giudica con procedure sommarie,
quasi ripagandoli della stessa moneta, rispondendo al terrorismo con violazioni dei
diritti umani. C’è anche un altro motivo: le modalità con cui sono state ottenute
le confessioni, in diversi casi attraverso pratiche quali il semi-annegamento, il
famoso water boarding, attraverso l’isolamento, in assenza di avvocati, in un processo
civile, davanti ad una corte federale, non reggerebbero. E dunque, se questi processi
venissero svolti dai tribunali ordinari, qualunque giudice non ammetterebbe come prove,
confessioni estorte sotto tortura. Quindi, da un certo punto di vista, è una scelta
obbligata ma fallimentare, perché molto lontana dall’idea di giustizia che credo accompagni
molte persone negli Stati Uniti, comprese quelle più direttamente coinvolte –purtroppo-
nella strage delle Torri Gemelle.
D. – In quella giornata del 2001, 2976 morti
in tutto. Ma saranno soltanto pochissimi i parenti delle vittime che potranno assistere
allo svolgimento del processo. Questo, forse, lascerà un po’ una macchia sulla storia
anche dell’amministrazione Obama?
R. - Credo di sì. Perché oltre al rischio
che questi processi militari, se vanno avanti, possono condurre a condanne a morte
ed a esecuzioni, c'è proprio l’idea di una mancanza di interruzione nella continuità
delle violazioni dei diritti umani dell’era Bush, che contraddistingue l’amministrazione
Obama. Guantanamo è ancora aperta. Non si vede la fine di questa detenzione a tempo
indeterminato che coinvolge ancora diverse decine di persone di Guantanamo, non si
vede una soluzione sul piano giudiziario, che rispetti gli standard internazionali,
e quindi non sono neanche all’orizzonte dei processi civili. Da questo punto di vista
le responsabilità dell’amministrazione Obama, purtroppo sono molte, ed è mancato proprio
quel segnale di discontinuità, che molti attendevano quando Obama si insediò.