Benedetto XVI: la "Pacem in terris" di Giovanni XXIII ha molto da insegnare al mondo
di oggi. Una riflessione del cardinale Maradiaga
La celebre Enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris non ha smesso di insegnare
alla nostra epoca cosa bisogna fare per promuovere la pace e difendere la giustizia.
Lo afferma Benedetto XVI nel Messaggio inviato oggi alla plenaria Pontificia Accademie
delle Scienze Sociali, in corso in Vaticano. Lo afferma Benedetto XVI nel Messaggio
inviato oggi alla plenaria della Pontificia Accademie delle Scienze Sociali. Il servizio
di Alessandro De Carolis:
Quando la
scrisse, il mondo cominciava a temere la propria dissoluzione in enorme fungo nucleare,
simbolo della perversa genialità umana, guerrafondaia e distruttiva. Giovanni XXIII
decise allora di appellarsi all’intelligenza e al cuore dell’umanità, che non dimentica
e anzi sa battersi per il valore universale della pace. Così – afferma Benedetto XVI
nel suo Messaggio alla plenaria delle Scienze Sociali – la Pacem in terris
divenne quella, come fu definita, “lettera aperta al mondo”, “l’accorato appello di
un grande pastore, vicino alla fine della sua vita, affinché la causa della pace e
della giustizia fossero vigorosamente promosse a ogni livello della società, sia in
ambito nazionale che internazionale”. Tuttavia, è un fatto che la straordinaria portata
di quelle pagine di 50 anni fa regga ancora il confronto con il mondo globalizzato
di oggi. “La visione offerta da Papa Giovanni – sottolinea Benedetto XVI – ha ancora
molto da insegnare a noi che lottiamo per affrontare le nuove sfide in favore della
pace e della giustizia nell'era post-Guerra Fredda e in mezzo al continuo proliferare
degli armamenti”.
Quella di “Papa Giovanni – prosegue Benedetto XVI – era ed
è un invito potente” a impegnarsi in un “dialogo creativo tra la Chiesa e il mondo,
tra credenti e non credenti”, sullo spirito del Vaticano II che proprio con Papa Roncalli
prendeva le mosse. Un invito seguito in pieno anche da Giovanni Paolo II dopo gli
attacchi terroristici del settembre 2001, che indussero Papa Wojtyla a ribadire che
senza il perdono la giustizia è all’incirca un’utopia. Per questo, esorta il Papa,
“il concetto di perdono ha bisogno di trovare la sua via nei discorsi internazionali
sulla risoluzione dei conflitti, così da trasformare il linguaggio sterile della recriminazione
reciproca che porta da nessuna parte”.
Anche i recenti Sinodi sulle Chiese
dell’Africa e del Medio Oriente, annota Benedetto XVI, hanno messo in evidenza che
“torti e ingiustizie storiche possono essere superati solo se uomini e donne vengono
ispirati da un messaggio di guarigione e di speranza, un messaggio che offre una via
d'uscita dall’impasse che spesso blocca persone e nazioni in un circolo vizioso
di violenza”. La Pacem in terris, in fondo, ne è la prova: “Dal 1963 – osserva
il Papa – alcuni dei conflitti che sembravano in quel frangente insolubili sono passati
alla storia”. Impegniamoci allora, conclude, a lottare “per la pace e la giustizia
nel mondo di oggi, fiduciosi che la nostra comune ricerca dell’ordine stabilito da
Dio, di un mondo in cui è la dignità di ogni persona umana si accorda al rispetto
che le è dovuto, può e potrà dare i suoi frutti”.
Sull’importanza e l’attualità
dei principi contenuti nella Pacem in terris sentiamo il cardinale Oscar
Andres Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, in Honduras, intervenuto
ai lavori della Plenaria dell’Accademia delle Scienze sociali. L’intervista è di Stefano
Leszczynski:
R. – E’ stato
un documento veramente ispirato dal Signore, a cominciare dalla lettura o meglio dalla
rilettura dei diritti umani che ha fatto Giovanni XXIII in una prospettiva cristiana.
Nel ’49, quando viene pubblicata la Dichiarazione Onu dei diritti umani, anche la
Chiesa ha qualcosa da dire: questa è stata la Pacem in terris. Ma anche riguardo
a quei principi fondamentali della libertà, della verità, della giustizia e dell’amore,
che sono pilastri ancora necessari come 50 anni fa. Tutto l’influsso che ebbe poi
la Pacem in terris nel Concilio Vaticano II è un altro punto molto interessante.
Penso inoltre all’approccio di questa Conferenza sull’aspetto della globalizzazione
e non semplicemente di una globalizzazione del mercato o della finanza, ma di una
globalizzazione in prospettiva cristiana, che deve essere nel senso di quanto detto
dal Beato Giovanni Paolo II: la globalizzazione della solidarietà.
D. - Una
globalizzazione che ha portato con sé anche un forte impulso alla secolarizzazione:
questo ha provocato molti danni, secondo lei, a livello sociale?
R. – Sì, soprattutto
perché una globalizzazione soltanto ridotta al livello economico impoverisce l’umanità.
Siamo uomini, siamo esseri umani e si deve, quindi, recuperare questa antropologia
teologica della Chiesa cattolica, che parla dell’essere umano come di un valore.