30 morti in Siria: attesi altri 24 militari Onu per il rispetto del cessate il fuoco
Trenta persone, tra cui due bambini, sono state uccise ieri dalle forze governative
in Siria, secondo Comitati locali dell'opposizione. Sempre più parziale, dunque, il
cessate il fuoco stabilito dal piano di pace dell’inviato speciale di Onu e Lega Araba,
Annan. Per un controllo sul territorio sono operativi da ieri a Damasco sei osservatori
dell’Onu disarmati ai quali si aggiungeranno nelle prossime ore 24 militari delle
Nazioni Unite. Il servizio di Marina Calculli
Della
situazione in Siria, Fausta Speranza ha parlato con Antonio Ferrari,
a lungo inviato del "Corriere della Sera" in Medio Oriente: R. – Se pensiamo
ad un “cessate il fuoco” con i mezzi pesanti, la cosa potrebbe essere addirittura
possibile; ma un cessare l’utilizzo delle armi – da come abbiamo visto in questi giorni
– purtroppo non c’è stato. Non c’è stato perché l’instabilità del regime è molto grande:
da una parte si accetta – almeno in linea di principio – il piano Annan, però poi
in sostanza la situazione è rimasta, grosso modo, quella di prima - con la diminuzione
di attacchi attraverso mezzi pesanti - per soddisfare quelle che sono le richieste
del piano Annan e per la continuazione delle violenze. Magari diverse, con armi leggere
ed anche violenze fisiche-psicologiche, nei confronti di ciascuno dei cosiddetti “nemici
del regime”.
D. – Qual è la situazione a Damasco: una città quasi compatta
intorno al presidente, è così?
R. – Io non credo. Credo che a Damasco si sia
concentrato tutto l’apparato di sicurezza del regime, del clan degli Assad, quindi
anche del presidente Bashar el Assad. E’ evidente: visto che lo sforzo maggiore è
stato fatto lì, Damasco si ritrova come stretta nella morsa del controllo dei servizi
di sicurezza, quindi è anche logico che sia stata più o meno preservata. Dico “più
o meno” perché ci sono stati degli attentati anche a Damasco, attentati sporadici,
soprattutto da parte di militari che sono passati nel gruppo dei militari "liberi",
assieme all’opposizione, e cercano così di fare la loro parte nei confronti del regime.
Quindi, una Damasco in fiamme, essendo la capitale, sarebbe veramente il prologo di
una immediata uscita di scena di Assad e del suo clan, dal vertice della Siria.
D.
– Parliamo di forze economiche del Paese: stanno dalla parte di Assad o comunque stanno
dalla parte della conservazione dello status quo, si stanno muovendo, riassestando
in nuovi equilibri?
R. – La situazione economica del Paese, è una situazione
in questo momento abbastanza delicata, al di là anche delle fortune personali dell’intero
apparato di questo clan, che per oltre 40 anni ha gestito il potere in Siria. Ci sono
state delle direttrici importanti: innanzitutto, per la Siria c’è stata la produzione
di petrolio. Una produzione limitata – 400/450 barili al giorno – utilizzata nei tempi
della guerra all’Iraq come “swap”, come scambio. Durante la guerra degli Stati Uniti
contro l’Iraq, ha avuto un atteggiamento più possibilista nei confronti dell’odiato
Saddam Hussein e questo a cosa ha portato? Ad acquistare petrolio ad un prezzo molto
favorevole da Saddam Hussein, che ricompensava la Siria per il suo atteggiamento,
per il suo non intervento nei confronti dell’Iraq e affianco degli alleati occidentali,
soprattutto degli americani. Ma questo che cosa consentiva, visto che parlavo di “swap”?
Consentiva di comprare petrolio a prezzo di favore – a prezzo “politico” – per poter
vendere a prezzo di mercato il suo. Questo è andato avanti e ha creato anche una forte
componente di raccolta di valuta pesante, di valuta importante. Si sa, per esempio,
che le riserve del Paese, che pare non siano state ancora particolarmente esaurite
– erano notevoli dall’inizio della "primavera": molti soldi sono serviti al regime
proprio per organizzare la sua tenuta nei confronti dell’avanzata e degli attacchi
degli oppositori – ma si sa che queste riserve potranno ancora resistere (parlo di
riserve ufficiali) per alcuni mesi, non per tanto. A queste chiaramente il regime
si appoggia, dal punto di vista economico. Non dimentichiamo poi che c’è un terzo
elemento molto importante, che ha sfibrato le strutture dell’economia siriana, e cioè
il rapporto con il Libano. Nel rapporto con il Libano – al di là dell’occupazione
di tanti anni per cui la Siria è considerata quasi un protettorato – c’è un rapporto
economico molto forte, sia a vantaggio della Siria sia a vantaggio del Libano. Della
Siria, perché attraverso il Libano poteva far partire tutti i suoi traffici, alcuni
anche border line; e del Libano, che ha almeno un milione di persone imparentate
con siriani e che sfrutta, appunto, il canale di terra perché è il canale più logico,
più normale: da Beirut a Damasco ci sono due ore e mezzo di macchina. Cosa è successo?
Anche per i libanesi, paradossalmente - pur essendosi liberati dei soldati siriani
- questo è diventato un grosso problema. Le banche libanesi in Siria, praticamente,
non lavorano più e tutta quella serie di beni, che erano destinati a gran parte del
mondo arabo e la cui direttrice più normale era passare attraverso la Siria e poi
da lì distribuirsi in tutta la penisola arabica ed anche in altri Paesi; questo canale
adesso è chiuso e quindi c’è rischio di soffocamento anche per gli interessi libanesi.
E poi, c’è tutto un giro di rifornimenti militari che, partendo dall’Iran o attraverso
l’Iran, potrebbero raggiungere la costa siriana e favorire, ovviamente, il regime
– le strutture del regime – e non certo gli insorti. Quindi, vediamo che dal punto
di vista economico c’è una situazione frastagliata: da una parte, come dicevo, ci
sono i grandi patrimoni (ovviamente continuano ad esistere patrimoni privati) mentre
dall’altra c’è una situazione di oggettiva fragilità di un Paese che non ha altre
risorse, se non quelle che ho elencato. (cp)