Yahoo taglia duemila posti di lavoro: luci e ombre della "new economy"
Yahoo cerca il rilancio, tagliando la propria forza lavoro di 2.000 unità, ovvero
il 14% del totale. Una mossa per risparmiare e rendere l’azienda più ''snella e flessibile''
– si legge in un comunicato aziendale – in grado di rispondere più velocemente e al
meglio alle richieste di consumatori e industria, con un risparmio di 375 milioni
di dollari a livello annuale. Un ulteriore conferma dell’estrema dinamicità di quella
che viene definita la “new economy”: da una parte in veloce sviluppo ed espansione,
dall’altra molto, forse troppo flessibile. Salvatore Sabatino ha intervistato
l’economista Francesco Carlà:
R. – I cicli
della “new economy” sono molto più rapidi di quelli della “old economy”. Yahoo, evidentemente,
è già un’azienda che ha fatto un suo ciclo di maturazione. È stato, infatti, uno dei
protagonisti iniziali, uno dei tre grandi moschettieri della “new economy” degli anni
’90 insieme ad Amazon e Ebay. Oggi, dopo aver avuto un periodo di grande espansione
ed una ciclicità positiva, deve un po’ cedere il passo ai nuovi protagonisti: Facebook,
Google, Twitter e così via.
D. – Queste grandi aziende informatiche, sono di
stanza per la maggior parte negli Stati Uniti, ma anche in Estremo Oriente, dove i
contratti applicati permettono un’estrema flessibilità. Questo modello potrebbe essere
applicato anche in Europa?
R. – Intanto, tutti questi giganti hanno il "cervello"
negli Stati Uniti, ma spesso il "portafoglio" in altri posti: per esempio a Dublino,
in Irlanda, dove da lì fatturano Microsoft, Google, con tutti i problemi Ue per quanto
riguarda la tassazione e la fiscalità. I modelli della “new economy” tecnologica americana
possono essere applicati bene in Europa, finché si parla di software. Molto più difficile
invece quando si tratta di hardware, perché – io lo spero – dalle nostre parti non
vedremo mai contratti come quelli della Apple con Foxconn, in Cina, dove si lavora
50 ore a settimana e dove i turni sono 24 ore su 24.
D. – L’estrema aggressività
della “new economy” ha, di fatto, la capacità di cambiare la mentalità in fatto di
tutela del lavoro. Secondo lei, questo costituisce un modello più positivo o più negativo?
R.
– È molto difficile dare una risposta univoca da questo punto di vista, perché è evidente
che il digitale aumenta due aspetti che spesso possono diventare negativi: da una
parte la flessibilità eccessiva e dall’altra la dispersione del lavoro, quindi l’uscita
dal luogo di lavoro fisico così come eravamo abituati a conoscerlo dalla Rivoluzione
industriale in poi. In questi due elementi possono però essere esaltati alcuni aspetti
più positivi: è molto importante come la politica è in grado di indirizzare entrambi
i fenomeni.
D. – Quali possono essere questi fattori positivi?
R. –
Il fattore positivo numero uno è la capacità di evitare la violenza dei cicli economici,
così come li abbiamo conosciuti nella Rivoluzione industriale, cioè legati alla rigidità
di certi sistemi che avevano in se stessi la radice delle loro crisi cicliche e continue.
Invece, per quanto riguarda la dispersione, la possibilità di lavorare ovunque, quindi
la mobilità del lavoro intesa proprio come capacità e possibilità di lavorare a prescindere
dal luogo fisico: lì vedo grandi possibilità anche di comunicazioni fra i popoli,
fra le nazioni, fra le persone. (bi)