Relazioni Episcopali tra Africa ed Europa, sfide per il futuro
Dal 13 al 17 del mese di febbraio scorso è stato realizzato a Roma il secondo simposium
dei vescovi dell’Africa e dell’Europa, sul tema “L’evangelizzazione oggi: comunione
e collaborazione tra l’Africa e l’Europa”. L’incontro, come sottolineato nel messaggio
finale “s’inscrive nell’idea secondo la quale tutti siamo parti integranti della stessa
chiesa, di una sola famiglia che si esprime con una sola voce”. Settanta vescovi africani
ed europei, delegati delle Conferenze Episcopali d’Africa e Madagascar e del Consiglio
Episcopale dell’Europa, si sono riuniti sotto il patrocinio della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli in collaborazione con diversi organismi di solidarietà.
Questo simposium è stato organizzato in linea di continuità con quello realizzato
nel 2004 sul tema “Comunione e solidarietà tra Africa e Europa: Cristo ci chiama,
Cristo ci invia”. Dal 2004 al 2012, sono stati organizzati tre colloqui intermedi
tra le stesse Conferenze Episcopali: il primo, in Ghana, nel 2007, sul tema “La schiavitù
e le nuove forme di schiavitù”; il secondo a Liverpool, in Inghilterra, nel 2008,
sul tema “Le migrazioni, nuovo spazio di evangelizzazione e solidarietà”; il terzo
in Abidjan, nella Costa d’Avorio, sul tema “Nuova situazione della missione ad
gentes: lo scambio di personale e formazione e vocazione”. Cinquanta anni dopo
il Concilio Vaticano II ed alcuni mesi prima del Sinodo sulla Nuova evangelizzazione
(che si terrà in Vaticano dal 7 al 28 ottobre 2012), i Vescovi dei due continenti
si sono incontrati nuovamente per riflettere assieme sulle condizioni per una collaborazione
efficace ed effettiva nella prospettiva della nuova evangelizzazione. Parlare
oggi della necessità di “collaborazione” tra vescovi dell’Africa e dell’Europa nella
prospettiva del compito della nuova evangelizzazione che li attende - nell’era della
globalizzazione, della mondializzazione e, soprattutto, cinquanta anni dopo il Concilio
Vaticano II - è un segno dei tempi, per quanto strano ci possa sembrare
oggi l’uso di questa parola in un tempo in cui la teologia dei segni dei tempi è praticamente
abbandonata nelle riflessioni teologiche sia in Africa che all’interno della stessa
Europa. Sono segni dei tempi che hanno “transitato per le molteplici vie percorse
dalla chiesa” grazie alla saggezza, la capacità visionaria, profetica e carismatica
di alcuni Pastori della chiesa universale. Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo
II hanno seminato nel campo al quale Benedetto XVI chiama oggi i pastori dei due continenti.
Un campo in cui realizzare una nuova forma di “collaborazione” e di conseguenza un
nuovo paradigma della missione ad gentes, in quest’epoca di globalizzazione
e mondializzazione. Sono chiamati a scoprire le radici della loro fraternità in Cristo,
perchè insieme, come fratelli, possano cantare in sinfonia il trionfo della vita sulla
morte, ed offrire in questo modo al mondo contemporaneo una ragione di speranza, per
usare un’espressione dell’apostolo Pietro. E la sinfonia richiede il concorso di strumenti
diversi. Il Concilio Vaticano II è stato, senza ombre di dubbio, un’occasione
di rinnovamento ecclesiale assai importante. Tuttavia, il suo contesto è rimasto essenzialmente
quello di una Chiesa che guardava il resto del mondo a partire dalla visione hegeliana
della storia, che considerava l’Europa, e di conseguenza il cattolicismo europeo,
come Centro del Mondo, o meglio ancora come Mondo del Regno dell’Universale, e l’Africa
quale Periferia del Centro, il mondo del Regno del Particolare. Le chiese europee
facevano così parte del Centro, della cultura Universale e quindi del centro della
cattolicità. Le restanti chiese appartenenti al cosiddetto “mondo delle missioni”
sono così rimaste parti di una Periferia del Mondo, della cultura del Particolare.
Di conseguenza continuano ad essere viste come un’appendice missionaria, nonostante
enormi sforzi teologici, filosofici e giuridici realizzati in questi anni per conferire
loro una certa fisionomia propria e la dignità di chiese di Dio al servizio dell’unico
Pastore. Queste “difficoltà” sono state percepite e assunte pienamente già da Papa
Paolo VI, la cui azione pastorale è stata quella di aprire ed estendere le porte del
Concilio Vaticano II alle culture e ai popoli del mondo ‘extra-euronordoccidentale’.
Egli fu, infatti, non soltanto il primo Pontefice ad aver varcato le soglie del continente
africano, ma anche uno dei primi ad elevare all’altare della dignità cristiana le
culture dei popoli africani e a procedere inoltre ad una rilettura dell’eredità storica
e teologica del cristianesimo in Africa, a partire dalla lunga tradizione che va dall’apostolo
S. Marco, nel sec. II dopo Cristo, fino ai nostri giorni. Il cristianesimo in Africa
ha, infatti, una lunga tradizione storica e teologica che non può essere ridotta al
mero periodo dell’arrivo dei missionari europei. Un altro profeta di questi segni
dei tempi è stato Giovanni Paolo II, non solo per la convocazione della prima
assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi per l’Africa nel 1994, e per essere
stato il Papa che ha percorso in lungo e largo gran parte dei Paesi africani. Lo è
soprattutto per la sua insistenza sulla convocazione dei sinodi continentali, in generale,
come sinodi della Chiesa universale che in comunione, ogni volta, discutono i problemi
di un determinato continente alla presenza del suo Pastore universale. È stata una
maniera più concreta, per i pastori della chiesa, di esercitare ciò che i bambara
del Mali chiamano “apertura di spirito”, con il detto: “desiderare il benessere del
tuo vicino o più lontano prima che i suoi lamenti ti impediscano di dormire”. Questi
momenti di sinodia sono occasioni di scambio, di informazione e di comunicazione
profonda fra i pastori, occasione unica per approfondire i legami, le conoscenze,
soprattutto per rafforzare la propria identità e allo stesso tempo temperare il proprio
spirito di solidarietà umana, di apertura e trascendenza culturale. Sono stati tutti
questi elementi che hanno reso possibile ai nostri giorni l’appello di Papa Benedetto
XVI ad una maggiore “collaborazione” tra le Conferenze Episcopali d’Africa e d’Europa
in uno spirito di comunione, di libertà, di corresponsabilità ecclesiale, in un “rendez-vous
du donner et du recevoir” (Léopold Sédar Senghor) al servizio della nuova evangelizzazione
dell’uomo e della donna nel mondo contemporaneo. Lo sforzo di Benedetto XVI consiste
nel permettere che entrambe le Conferenze Episcopali - consapevoli della loro grave
responsabilità comune davanti al mondo odierno - siano in grado di concepirsi, parafrasando
il teologo e liturgista François Kabassele Lumbala, come una “chance reciproca” per
il trionfo della vita sulla morte nel mondo contemporaneo. Ora, se la riflessione
sulle relazioni tra l’Africa e l’Europa in generale, soprattutto sul piano culturale,
politico, geopolitico, ecc., è da ritenere ormai consolidata nel tempo, sul piano
ecclesiale è ancora, per così dire, assai “giovane”, come lo è anche l’idea della
nuova evangelizzazione. Dopo “L’ambigua avventura” dello scrittore e filosofo Cheikh
Hamidou Kane, negli anni sessanta, che ha lanciato basi importanti che hanno orientato
il comportamento degli africani in rapporto agli europei durante tutto il lungo periodo
della lotta contro il dominio coloniale, nel 2004 il filosofo André Julien Mbem, interrogandosi
sui “progetti per il Nuovo Mondo che verrà”, ha ricordato agli europei che l’Africa
si trova nel cuore dell’Europa e non nella Periferia del Sud del Mondo. Sulla stessa
linea si pone anche Anne Cécile Robert che parla di “Africa in soccorso dell’Occidente”.
Tutte queste recenti riflessioni seguono la linea di Cheikh Hamidou Kane secondo
il quale, a partire dal momento in cui gli europei sono sbarcati nei diversi porti
del continente africano, ebbe inizio la fine dei destini singoli e della preservazione
di sé stessi. Per cui anche se non abbiamo avuto lo stesso passato, avremo rigorosamente
lo stesso avvenire caratterizzato dalla nuova èra di identità interculturali, plurali,
insomma identità ‘in diaspora’. Gli africani hanno assunto appieno questa consapevolezza
e partendo da essa sono stati capaci di lottare contro i diversi sistemi di oppressione
e dominazione nel continente, senza mai cadere nella tentazione di combattere i popoli
e le culture europee. Infatti, come ci ricorda il filosofo Fabien Eboussi Boulaga,
“ciò che noi chiamiamo Africa è nella sua essenza ‘in diaspora’”, vale a dire un’identità
plurale, interculturale, lontana pertanto dalla purezza identitaria iniziale prima
dell’“incontro-scontro” (Aimé Césaire) con il mondo ‘euronordoccidentale’. Già S.Agostino
ricordava che mentre Gesù dormiva nel sonno della morte sulla croce, nasceva la Chiesa
come comunità cattolica, universale, interculturale, ‘in diaspora’, insomma purificata
dall’etnocentrismo di una sola cultura (romana, giudaica, ecc.). Purtroppo quest’aspetto
dell’identità interculturale, ‘in diaspora’ - nonostante sia stato uno degli elementi
importanti, forse il più significativo dell’evento della morte e risurrezione di Gesù
Cristo - a duemila anni di distanza non ha mai penetrato in profondità e convinzione
la caverna del cuore della cultura filosofica, teologia e giuridica della Chiesa cattolica
europea. Essa ha continuato a guardare la produzione culturale degli Altri, secondo
il paradigma dell’universale (il suo) versus il particolare (la produzione
culturale degli altri, degli altri periferici). Da questo punto di vista penso che
sia la maggiore sfida per questa futura “collaborazione” nella comunione, nell’ambito
dello scambio culturale in uno spirito di eguaglianza. È una sfida perché riguarda
sia la “collaborazione”, sia il proprio compito nella nuova evangelizzazione, sia
anzitutto cosa sta succedendo nella caverna del cuore e della mente delle persone,
dei protagonisti. La chiesa europea contribuisce molto alla vita della chiesa in Africa,
così come anche riceve molto da essa non solo sul piano umano e spirituale. Ma la
maggior resistenza risiede nello scambio culturale che richiede, da entrambe, una
‘metànoia’ radicale, non solo nella maniera di agire, ma soprattutto di pensare e
guardare il mondo dell’altro. La cultura dell’etnocentrismo è millenaria e di conseguenza
non si esce da essa come se si trattasse di passare dalla cucina alla sala da pranzo:
richiede veramente una ‘morte’, nel senso di una ‘kenosi’, un annullamento che aiuti
ad un certo disarmo culturale da entrambi i protagonisti e, pertanto, una ‘metànoia’,
una conversione, da entrambi. Paolo VI si è rivolto ai popoli in Africa chiamandoli
africani e ha ricordato loro il compito di essere missionari di sé stessi, in quanto
africani. Noi, afferma Thomas Sankara, dobbiamo accettare di vivere come africani.
È l’unica maniera che abbiamo per vivere liberi e con dignità in questo mondo. Il
“la africano”, purificato nell’incontro con Gesù Cristo, è la nostra unica nota che
siamo chiamati ad offrire, in quest’orchestra sinfonica della collaborazione ecclesiale,
in questo difficile compito della nuova evangelizzazione.
A cura di Filomeno
Lopes, programma portoghese per l’Africa.