2012-04-05 14:14:05

L'assedio di Sarajevo, 20 anni dopo. Nadira Sehovic: Sarajevo non dimentica


Il 6 aprile del 1992, dopo l’uccisione il giorno prima da parte dei soldati serbi di due bosniaci che manifestavano contro la guerra, le truppe serbo-bosniache bombardarono Sarajevo: fu ufficialmente la guerra, l’inizio di un assedio che sarebbe durato oltre mille giorni e sarebbe finito nel 1996. Nella sola Sarajevo le vittime, la maggior parte civili, furono quasi 12mila. La città in quegli anni fu completamente isolata, tagliata fuori dai rifornimenti di qualsiasi genere di prima necessità. Si è calcolato che vi fosse una media di oltre 300 bombardamenti giornalieri. Nel 1995 intervennero i jet della Nato, che attaccarono obiettivi militari serbi; nell’ottobre del '95 gli accordi di Dayton ristabilirono la pace. Incriminati per il massacro di Sarajevo furono l'allora leader serbo-bosniaco Radovan Karadžić e il suo “braccio armato”, il generale Ratko Mladic. Francesca Sabatinelli ha raccolto la testimonianza della giornalista e scrittrice di Sarajevo Nadira Sehovic:RealAudioMP3

R. – Sarajevo non dimentica! Non ha dimenticato e probabilmente non dimenticherà mai quel che è successo. Non c’è questo senso così spiccato di ricorrenza, come lo è invece sulla stampa occidentale o tra gli inviati che 20 anni fa venivano a Sarajevo e che oggi si sono ritrovati e riuniti qui.

D. – Nadira Sehovic, in questi 20 anni che tipo di cammino ha fatto la città, nel ricordo di ciò che era accaduto?

R. – Quel che è accaduto è sempre presente: è presente anche in novembre o in gennaio, non soltanto il mese di aprile. Sì, tutti noi ricordiamo che è cominciato allora, ma la guerra, l’assedio, le violenze, i morti (solo di civili, in città, più di 11 mila), tutto ciò si ricorda ed è presente nella memoria collettiva della città ogni giorno e condiziona la vita quotidiana di tutti noi ogni giorno, di anno in anno, perché per quanto ci si sia allontanati da quelle tragedie, tutte le nostre vite sarebbero state sicuramente molto diverse se la guerra non ci fosse stata. Oggi, la struttura della popolazione cittadina è cambiata notevolmente, una delle etnie, quella bosniaco-musulmana, è ora l’etnia più numerosa e il motivo è semplice: gli altri avevano dove andare, i musulmani no. Le popolazioni rurali si sono rifugiate a Sarajevo, anche durante la guerra, lo so che può sembrare molto strano dire “si sono rifugiate” a Sarajevo durante la guerra, a Sarajevo che era sotto assedio. Eppure molti profughi sono venuti, o sono stati spinti a entrare in città, anche durante l’assedio, provenienti dai dintorni.

D. – Questa aumentata presenza dei bosniaco-musulmani ha creato nella Sarajevo di oggi uno squilibrio, in qualche modo?

R. – Dipende dalle categorie e dai gruppi di persone, ma a me non sembra molto. C’è un gruppo etnico che è molto prevalente come numero, ma è rimasto comunque il senso della tolleranza, del buon vicinato e di tutto quello che noi chiamavamo lo “spirito di Sarajevo”, che significava appunto la presenza di molte culture e molte religioni.

D. – Lei scelse di restare a Sarajevo in quel periodo, in quegli oltre mille giorni di assedio. Ci ha raccontato di come la città che ne è uscita non è mai più stata la stessa. Ma le persone – proprio come lei, ad esempio – che cosa hanno dentro di sé?

R. – La consapevolezza di quello che è accaduto e che ha cambiato completamente le nostre vite. Inoltre, c’è ancora la grande incredulità che avevamo nell’aprile del ’92 e poi anche nel ’93 e nel ’94. Noi continuavamo a dirci: “Non è possibile che accada questo! Non è possibile che ci siano tali devastazioni e distruzioni! Non è possibile bombardare un ospedale! Non è possibile incendiare la biblioteca!”. Queste sono tutte cose che non credevamo possibili, anche quando le vedevamo con i nostri occhi, non riuscivamo a crederci. Anche adesso, che racconto certe esperienze, mi ascolto e ancora mi dico: “Ma è possibile che sia successa una cosa del genere?”.

D. – Con questi ricordi, con questo dolore e con questa incredulità, come si fa poi a superare, se ci si arriva, quella dimensione di odio che forse può nascere?

R. – E’ difficile, è sempre difficile! Ci sono dei fenomeni in cui si può riconoscere dell’odio e regolarmente sono causati dai traumi veramente terribili che una persona ha vissuto. Però la vita deve andare avanti. Da noi, in questi giorni – soltanto per fare un piccolissimo esempio – abbiamo i veterani di guerra che protestano per le pensioni, che sono molto basse e questo perché il livello di vita in Bosnia è decisamente basso, oltre il 40 per cento delle persone vive o sotto o intorno alla soglia della povertà. Ci sono, quindi, le proteste di persone che si sono sparate, di militari, allora combattenti, che si sono combattuti durante la guerra e che ora fanno queste proteste insieme.

D. – Nadira, lei ha scritto diverso tempo fa che ha provato ad un certo punto il desiderio di lasciare casa, di andare via, però non lo ha fatto ed è rimasta a Sarajevo, dove tutt’ora vive. Perché decise di rimanere?

R. – Intanto, che non si pensi che si tratti di chissà quale coraggio, eroismo o cosa, assolutamente non c’entrano niente! Le ho già parlato dell’incredulità, perché quella c’era tutti i giorni: noi ogni giorno pensavamo che sarebbe finita, perché era inconcepibile che potesse andare avanti. E poi io e la mia famiglia abbiamo scelto di restare semplicemente perché, per sentito dire e non per esperienza personale, conoscevamo abbastanza quale fosse la vita di un profugo e non volevamo farla! Era anche una forma di resistenza quella di voler restare a casa nostra. Perché andare via e lasciare la propria casa? Io non ammetto che qualcuno possa avere il diritto di cacciarmi da casa mia! (mg)







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