2012-04-05 14:28:45

20 anni fa l'assedio di Sarajevo: le testimonianze del cardinale Puljc e di Nadira Sehovic


Il 6 aprile del 1992, dopo l’uccisione il giorno prima da parte dei soldati serbi di due bosniaci che manifestavano contro la guerra, le truppe serbo-bosniache bombardarono Sarajevo: fu ufficialmente la guerra, l’inizio di un assedio che sarebbe durato oltre mille giorni e sarebbe finito nel 1996. Nella sola Sarajevo le vittime, la maggior parte civili, furono quasi 12mila. La città in quegli anni fu completamente isolata, tagliata fuori dai rifornimenti di qualsiasi genere di prima necessità. Si è calcolato che vi fosse una media di oltre 300 bombardamenti giornalieri. Nel 1995 intervennero i jet della Nato, che attaccarono obiettivi militari serbi; nell’ottobre del '95 gli accordi di Dayton ristabilirono la pace. Incriminati per il massacro di Sarajevo furono l'allora leader serbo-bosniaco Radovan Karadžić e il suo “braccio armato”, il generale Ratko Mladic. I ricordi sono ancora vivi nella memoria del cardinale Vinko Puljic, che in quegli anni era arcivescovo di Sarajevo. Durante l’assedio, si ripeterono i suoi molti appelli di pace e di difesa dei diritti umani. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:RealAudioMP3

R. – Io sono molto grato a Dio perché sono sopravvissuto a queste brutte cose e sono sempre rimasto a Sarajevo come pastore. Anche quando sono cadute tante, tante granate questo popolo - il popolo che viveva a Sarajevo - è sopravvissuto. Il fatto che il vescovo fosse presente a Sarajevo è stato un segno di speranza, anche perché altri capi religiosi non erano presenti durante la guerra. Mancava l’elettricità, mancava il riscaldamento, mancava l’acqua, mancava anche il cibo. A tutto questo non è stato facile sopravvivere. Io, assieme a una piccola comunità di giovani, pregavo e questa preghiera mi dava la forza per avere speranza: non soltanto a me, ma anche ai miei fedeli, ai miei sacerdoti. Giravo per la città, cercando di far coraggio ai miei sacerdoti e al popolo. Bisognava portare un messaggio di pace, di speranza, cercando di difendere i diritti umani. Quella guerra è stata molto brutta e oggi io non voglio parlare di quello che abbiamo vissuto, perché il ricordo ancora non mi fa dormire: ho visto tante brutte cose, ho visto tanto sangue e tanti feriti, ho sentito cadere tante granate. Per questo io dico grazie a Dio: perché io sono ancora “normale”, malgrado tutte quelle brutte cose. Durante la guerra, la mia prima preoccupazione era di riuscire a rafforzare questa speranza. Dopo la guerra, invece, la più grande preoccupazione era quella di riuscire a creare un’uguaglianza, perché non esisteva. In questo Paese il popolo è composto da tre etnie, con quattro religioni: musulmani, ortodossi, cattolici e ebrei. Era necessario creare uno Stato in cui tutti fossero uguali. Gli accordi di Dayton, però, non si fondavano sull’uguaglianza. Questo era un problema. Grazie a Dio, questi accordi hanno fermato la guerra, ma non sono riusciti a creare una pace stabile in questo Paese, dove vivere insieme e in uguaglianza. Senza l’uguaglianza non è facile arrivare alla fiducia, arrivare al perdono. Noi, nella Chiesa, sosteniamo il popolo, lo aiutiamo a “pulire” il suo cuore. E’ molto importante il perdono per vivere poi senza odio. Ancora però, in pubblico, non c’è stato questo perdono. Ancora in tanti, tra politici e mass media, lanciano provocazioni, non creano un clima di convivenza e di tolleranza.

D. – Vent’anni fa, Sarajevo era effettivamente la città simbolo della convivenza: in questi venti anni, quindi, è fallito l’esempio della Sarajevo multiculturale?

R. – Questa città è stata capitale di tutta la Bosnia ed Erzegovina e sempre simbolo di convivenza fra tutte le etnie. Oggi, in questa città vivono in maggioranza i musulmani, che rappresentano l’85 per cento della popolazione. Ci sono poi una piccola comunità cattolica e una ortodossa e poche altre etnie. Questa città è interamente sotto la guida musulmana: questo crea una realtà in cui i diritti non sono uguali per tutti. Dopo la guerra, il mio desiderio era quello di costruire una chiesa parrocchiale, dopo più di 13 anni non ho ancora ricevuto il permesso per farlo. Lo Stato ha occupato tanti nostri spazi. Se trovo uno spazio per una chiesa, devo pagare molto: ma se io come arcivescovo non ricevo i permessi, come può allora il semplice popolo avere uguali diritti a livello statale? Durante la guerra e dopo la guerra è arrivata una nuova mentalità dai Paesi arabi, quella dei wahabiti, che non è quella che io ho conosciuto a scuola, crescendo con gli altri musulmani: questa è molto diversa. Appena io ho detto questo, c’è stata subito la reazione dei capi musulmani.

D. – Eminenza, qual è il problema principale che i cattolici di Sarajevo si trovano ad affrontare? Sappiamo che il loro numero è diminuito moltissimo negli ultimi vent’anni…

R. – Sì, sì. Prima della guerra in Bosnia ed Erzegovina erano presenti 820 mila cattolici. Oggi, in tutta la Bosnia, vivono approssimativamente circa 446 mila cattolici. Nella mia arcidiocesi, quella di Sarajevo, che è la più grande, prima della guerra c’erano 528 mila cattolici, oggi sono soltanto 192 mila cattolici. Dopo la fine di questa guerra, non c’è stata alcuna volontà da parte dei politici per cercare di far rientrare i profughi, non c’è stato alcun appoggio per cercare di far rimanere le persone, specialmente quando trovano lavoro. Questo è un problema.

D. – Vuol dire che c’è discriminazione da parte delle autorità?

R. – Qualche discriminazione c’è, è vero, certo non pubblicamente. Sono fatte “sotto il tavolo”, laddove noi viviamo come minoranza: nella Republika Srpska, da parte dei serbi, e dove viviamo con i musulmani è da parte della maggioranza.

D. – Adesso, quali sono i problemi per tutti gli abitanti?

R. – Il primo problema è il lavoro: quasi il 43 per cento non ha possibilità di lavorare. Un altro problema è, come ho già detto, che non esiste un’uguaglianza in tutta la Bosnia ed Erzegovina.

D. – C’è un messaggio particolare che vuole lanciare?

R. – Per questa Pasqua, come pastore, voglio chiedere ai cattolici dell’Europa di aiutarci a sopravvivere in questo Paese. Il Beato Giovanni Paolo II era a Sarajevo il 12 e il 13 aprile (quando consegnò al card. Puljic la "Lampada della pace", ndr). Questa Lampada della pace è sempre in cattedrale e ci ricorda questo messaggio di pace. Tutti i cattolici – e non soltanto io – non possiamo dimenticare questo grande Papa così vicino a noi. (mg)

Francesca Sabatinelli ha raccolto la testimonianza della giornalista e scrittrice di Sarajevo Nadira Sehovic: RealAudioMP3

R. – Sarajevo non dimentica! Non ha dimenticato e probabilmente non dimenticherà mai quel che è successo. Non c’è questo senso così spiccato di ricorrenza, come lo è invece sulla stampa occidentale o tra gli inviati che 20 anni fa venivano a Sarajevo e che oggi si sono ritrovati e riuniti qui.

D. – Nadira Sehovic, in questi 20 anni che tipo di cammino ha fatto la città, nel ricordo di ciò che era accaduto?

R. – Quel che è accaduto è sempre presente: è presente anche in novembre o in gennaio, non soltanto il mese di aprile. Sì, tutti noi ricordiamo che è cominciato allora, ma la guerra, l’assedio, le violenze, i morti (solo di civili, in città, più di 11 mila), tutto ciò si ricorda ed è presente nella memoria collettiva della città ogni giorno e condiziona la vita quotidiana di tutti noi ogni giorno, di anno in anno, perché per quanto ci si sia allontanati da quelle tragedie, tutte le nostre vite sarebbero state sicuramente molto diverse se la guerra non ci fosse stata. Oggi, la struttura della popolazione cittadina è cambiata notevolmente, una delle etnie, quella bosniaco-musulmana, è ora l’etnia più numerosa e il motivo è semplice: gli altri avevano dove andare, i musulmani no. Le popolazioni rurali si sono rifugiate a Sarajevo, anche durante la guerra, lo so che può sembrare molto strano dire “si sono rifugiate” a Sarajevo durante la guerra, a Sarajevo che era sotto assedio. Eppure molti profughi sono venuti, o sono stati spinti a entrare in città, anche durante l’assedio, provenienti dai dintorni.

D. – Questa aumentata presenza dei bosniaco-musulmani ha creato nella Sarajevo di oggi uno squilibrio, in qualche modo?

R. – Dipende dalle categorie e dai gruppi di persone, ma a me non sembra molto. C’è un gruppo etnico che è molto prevalente come numero, ma è rimasto comunque il senso della tolleranza, del buon vicinato e di tutto quello che noi chiamavamo lo “spirito di Sarajevo”, che significava appunto la presenza di molte culture e molte religioni.

D. – Lei scelse di restare a Sarajevo in quel periodo, in quegli oltre mille giorni di assedio. Ci ha raccontato di come la città che ne è uscita non è mai più stata la stessa. Ma le persone – proprio come lei, ad esempio – che cosa hanno dentro di sé?

R. – La consapevolezza di quello che è accaduto e che ha cambiato completamente le nostre vite. Inoltre, c’è ancora la grande incredulità che avevamo nell’aprile del ’92 e poi anche nel ’93 e nel ’94. Noi continuavamo a dirci: “Non è possibile che accada questo! Non è possibile che ci siano tali devastazioni e distruzioni! Non è possibile bombardare un ospedale! Non è possibile incendiare la biblioteca!”. Queste sono tutte cose che non credevamo possibili, anche quando le vedevamo con i nostri occhi, non riuscivamo a crederci. Anche adesso, che racconto certe esperienze, mi ascolto e ancora mi dico: “Ma è possibile che sia successa una cosa del genere?”.

D. – Con questi ricordi, con questo dolore e con questa incredulità, come si fa poi a superare, se ci si arriva, quella dimensione di odio che forse può nascere?

R. – E’ difficile, è sempre difficile! Ci sono dei fenomeni in cui si può riconoscere dell’odio e regolarmente sono causati dai traumi veramente terribili che una persona ha vissuto. Però la vita deve andare avanti. Da noi, in questi giorni – soltanto per fare un piccolissimo esempio – abbiamo i veterani di guerra che protestano per le pensioni, che sono molto basse e questo perché il livello di vita in Bosnia è decisamente basso, oltre il 40 per cento delle persone vive o sotto o intorno alla soglia della povertà. Ci sono, quindi, le proteste di persone che si sono sparate, di militari, allora combattenti, che si sono combattuti durante la guerra e che ora fanno queste proteste insieme.

D. – Nadira, lei ha scritto diverso tempo fa che ha provato ad un certo punto il desiderio di lasciare casa, di andare via, però non lo ha fatto ed è rimasta a Sarajevo, dove tutt’ora vive. Perché decise di rimanere?

R. – Intanto, che non si pensi che si tratti di chissà quale coraggio, eroismo o cosa, assolutamente non c’entrano niente! Le ho già parlato dell’incredulità, perché quella c’era tutti i giorni: noi ogni giorno pensavamo che sarebbe finita, perché era inconcepibile che potesse andare avanti. E poi io e la mia famiglia abbiamo scelto di restare semplicemente perché, per sentito dire e non per esperienza personale, conoscevamo abbastanza quale fosse la vita di un profugo e non volevamo farla! Era anche una forma di resistenza quella di voler restare a casa nostra. Perché andare via e lasciare la propria casa? Io non ammetto che qualcuno possa avere il diritto di cacciarmi da casa mia! (mg)








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