2012-04-04 15:40:36

Vent'anni fa l'assedio di Sarajevo. Il cardinale Puljic ne ricorda gli orrori


Tra il 5 e il 6 aprile 2012 ricorrono i venti anni dall’assedio di Sarajevo, la città martire della Bosnia ed Erzegovina. Ancora oggi, la data precisa dell’inizio di questa tragedia è contesa tra serbi, croati e bosgnacchi, i bosniaci musulmani. Al 29 febbraio 1996, quando a seguito dell’accordo di Dayton (che divise il Paese in due entità, la Federazione croato-musulmana di Bosnia e la Repubblica serba di Bosnia), si mise fine all’assedio - il più lungo della storia bellica moderna - si contarono oltre 12 mila morti, di cui 1500 bambini, e più di 50 mila feriti. Durante quegli anni, furono commesse atrocità gravissime: tutto era sotto il controllo dei serbi, guidati da Radovan Karadžić, che bloccarono le principali strade dirette in città, i rifornimenti di viveri e medicine e che tagliarono acqua, elettricità e riscaldamento. I ricordi sono ancora vivi nella memoria del cardinale Vinko Puljic, che in quegli anni era arcivescovo di Sarajevo. Durante l’assedio, si ripeterono i suoi molti appelli di pace e di difesa dei diritti umani. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:RealAudioMP3

R. – Io sono molto grato a Dio perché sono sopravvissuto a queste brutte cose e sono sempre rimasto a Sarajevo come pastore. Anche quando sono cadute tante, tante granate questo popolo - il popolo che viveva a Sarajevo - è sopravvissuto. Il fatto che il vescovo fosse presente a Sarajevo è stato un segno di speranza, anche perché altri capi religiosi non erano presenti durante la guerra. Mancava l’elettricità, mancava il riscaldamento, mancava l’acqua, mancava anche il cibo. A tutto questo non è stato facile sopravvivere. Io, assieme a una piccola comunità di giovani, pregavo e questa preghiera mi dava la forza per avere speranza: non soltanto a me, ma anche ai miei fedeli, ai miei sacerdoti. Giravo per la città, cercando di far coraggio ai miei sacerdoti e al popolo. Bisognava portare un messaggio di pace, di speranza, cercando di difendere i diritti umani. Quella guerra è stata molto brutta e oggi io non voglio parlare di quello che abbiamo vissuto, perché il ricordo ancora non mi fa dormire: ho visto tante brutte cose, ho visto tanto sangue e tanti feriti, ho sentito cadere tante granate. Per questo io dico grazie a Dio: perché io sono ancora “normale”, malgrado tutte quelle brutte cose. Durante la guerra, la mia prima preoccupazione era di riuscire a rafforzare questa speranza. Dopo la guerra, invece, la più grande preoccupazione era quella di riuscire a creare un’uguaglianza, perché non esisteva. In questo Paese il popolo è composto da tre etnie, con quattro religioni: musulmani, ortodossi, cattolici e ebrei. Era necessario creare uno Stato in cui tutti fossero uguali. Gli accordi di Dayton, però, non si fondavano sull’uguaglianza. Questo era un problema. Grazie a Dio, questi accordi hanno fermato la guerra, ma non sono riusciti a creare una pace stabile in questo Paese, dove vivere insieme e in uguaglianza. Senza l’uguaglianza non è facile arrivare alla fiducia, arrivare al perdono. Noi, nella Chiesa, sosteniamo il popolo, lo aiutiamo a “pulire” il suo cuore. E’ molto importante il perdono per vivere poi senza odio. Ancora però, in pubblico, non c’è stato questo perdono. Ancora in tanti, tra politici e mass media, lanciano provocazioni, non creano un clima di convivenza e di tolleranza.

D. – Vent’anni fa, Sarajevo era effettivamente la città simbolo della convivenza: in questi venti anni, quindi, è fallito l’esempio della Sarajevo multiculturale?

R. – Questa città è stata capitale di tutta la Bosnia ed Erzegovina e sempre simbolo di convivenza fra tutte le etnie. Oggi, in questa città vivono in maggioranza i musulmani, che rappresentano l’85 per cento della popolazione. Ci sono poi una piccola comunità cattolica e una ortodossa e poche altre etnie. Questa città è interamente sotto la guida musulmana: questo crea una realtà in cui i diritti non sono uguali per tutti. Dopo la guerra, il mio desiderio era quello di costruire una chiesa parrocchiale, dopo più di 13 anni non ho ancora ricevuto il permesso per farlo. Lo Stato ha occupato tanti nostri spazi. Se trovo uno spazio per una chiesa, devo pagare molto: ma se io come arcivescovo non ricevo i permessi, come può allora il semplice popolo avere uguali diritti a livello statale? Durante la guerra e dopo la guerra è arrivata una nuova mentalità dai Paesi arabi, quella dei wahabiti, che non è quella che io ho conosciuto a scuola, crescendo con gli altri musulmani: questa è molto diversa. Appena io ho detto questo, c’è stata subito la reazione dei capi musulmani.

D. – Eminenza, qual è il problema principale che i cattolici di Sarajevo si trovano ad affrontare? Sappiamo che il loro numero è diminuito moltissimo negli ultimi vent’anni…

R. – Sì, sì. Prima della guerra in Bosnia ed Erzegovina erano presenti 820 mila cattolici. Oggi, in tutta la Bosnia, vivono approssimativamente circa 446 mila cattolici. Nella mia arcidiocesi, quella di Sarajevo, che è la più grande, prima della guerra c’erano 528 mila cattolici, oggi sono soltanto 192 mila cattolici. Dopo la fine di questa guerra, non c’è stata alcuna volontà da parte dei politici per cercare di far rientrare i profughi, non c’è stato alcun appoggio per cercare di far rimanere le persone, specialmente quando trovano lavoro. Questo è un problema.

D. – Vuol dire che c’è discriminazione da parte delle autorità?

R. – Qualche discriminazione c’è, è vero, certo non pubblicamente. Sono fatte “sotto il tavolo”, laddove noi viviamo come minoranza: nella Republika Srpska, da parte dei serbi, e dove viviamo con i musulmani è da parte della maggioranza.

D. – Adesso, quali sono i problemi per tutti gli abitanti?

R. – Il primo problema è il lavoro: quasi il 43 per cento non ha possibilità di lavorare. Un altro problema è, come ho già detto, che non esiste un’uguaglianza in tutta la Bosnia ed Erzegovina.

D. – C’è un messaggio particolare che vuole lanciare?

R. – Per questa Pasqua, come pastore, voglio chiedere ai cattolici dell’Europa di aiutarci a sopravvivere in questo Paese. Il Beato Giovanni Paolo II era a Sarajevo il 12 e il 13 aprile (quando consegnò al card. Puljic la "Lampada della pace", ndr). Questa Lampada della pace è sempre in cattedrale e ci ricorda questo messaggio di pace. Tutti i cattolici – e non soltanto io – non possiamo dimenticare questo grande Papa così vicino a noi. (mg)








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