Camerun: quando il riscatto per i bambini di strada passa per lo sport
Basket, pallavolo e chissà, magari in futuro anche calcio, perché lo sport non è soltanto
competizione ma è un “collante” sociale capace di far instaurare un dialogo tra culture,
promuovere la pace e i diritti umani. Con questo spirito alcuni campioni olimpici
italiani hanno dato vita all’Associazione Sport Education che, partita da Modena alla
volta della regione di Shisong, in Camerun, ha attivato “Un sogno oltre la rete”,
iniziativa nata per il recupero dei bambini di strada. In che modo, lo spiega al microfono
di Roberta Barbi la vicepresidente della onlus e responsabile del progetto,
Rita Malavolta:
R. - “Un sogno
oltre la rete” è un bellissimo sogno iniziale, che si è concretizzato nel corso degli
ultimi due anni. E’ un progetto di cooperazione internazionale Italia - Camerun. Perché
si chiama “oltre la rete”? Perché abbiamo considerato il gioco che andasse oltre il
consueto canone sportivo di una pura competizione, ma di un valore sociale molto alto.
Ma “oltre la rete” anche perché ha lo scopo di unire etnie diverse: abbiamo organizzato
tornei fra villaggi e ciò ha consentito una inclusione per le bambine.
D. -
In che modo lo sport può salvare i bambini dalla strada?
R. - Conferendo loro
una dignità, un ruolo, un’importanza rispetto al contesto in cui vivono. Lo sport
di per sé è un fattore integrante molto, molto forte. Lo sport viene, in questo caso,
utilizzato per far sì che bambini che vivono veramente in un degrado forte - sia di
vita, ma anche di precarietà del proprio futuro - possono riappropriarsi della loro
persona. Inizialmente, quando abbiamo cominciato il progetto, i bambini venivano da
noi sporchi… Nel momento in cui hanno iniziato a giocare, hanno cominciato a venire
agli allenamenti e agli appuntamenti quotidiani con le scarpe in mano, perché non
dovevano toccare la terra rossa e quindi non dovevano sporcarsi; con la divisa sempre
linda e pulita. Su questo si gioca il ruolo sociale, in fatto della frequenza scolastica,
perché i bambini che partecipano ai giochi devono obbligatoriamente andare a scuola.
D. - Questo progetto la vostra onlus - Sport Education - ha scelto il Camerun:
quali sono i problemi principali di questa terra?
R. - Inizialmente rappresentava
un progetto pilota, che si è esteso in tutto il Camerun, dove esiste una precarietà,
anche dal punto di vista sociale, di accettazione, dell’utilizzo - sempre tra virgolette
- del bambino in quanto tale. Il Camerun, come gran parte dell’Africa, vede un diritto
negato ai bambini e in particolar modo proprio quello del gioco. Dalle campagne ci
siamo poi successivamente spostati alle città, in quanto abbiamo potuto notare che
nei sobborghi cittadini la situazione è ancora molto più precaria: oltre al lavoro,
i bambini aspettano il correre degli eventi sul ciglio della strada. Sono quindi in
balia dei malviventi, delle bande organizzate che li rapiscono per farli diventare
dei bambini di strada; sono in balia della prostituzione e in particolar modo le bimbe.
A mio avviso il valore aggiunto di questo progetto è il coinvolgimento delle famiglie:
non basta soltanto lavorare sui bambini, ma occorre lavorare anche sulla famiglia.
Il Camerun è stato il primo Paese, ma abbiamo ora in progetto di estendere quest’azione
sportiva in Sudan, nell’area di Tongji, che abbiamo identificato come l’area più precaria
in quanto la zona di rientro dei bambini soldati; e in Senegal.
D. - Nella
regione di Shisong dal 2009 è attivo anche il Cardiac Center che opera al cuore 500
bambini l’anno. L’attività sportiva può diventare parte della riabilitazione?
R.
- Potrebbe diventare parte della riabilitazione. Logicamente deve essere contemplata
una parte prettamente medica e non solo ludica, in quanto il bambino operato in Africa
sicuramente non è un bambino operato in Europa. Un’attiva calibrata potrebbe, però,
sicuramente andare ad aiutare quello che è un percorso post-operatorio. (mg)