2012-03-26 11:36:12

Letture quaresimali nella chiesa di santa Maria della Vittoria. Vincenzo Bocciarelli legge Jerome Lejeune


La compassione è un sentimento che ogni medico dovrebbe avere. Si esprimeva così Jerome Lejeune, il padre della genetica moderna, colui che scoprì l’anomalia cromosomica alla base della sindrome di down. Il medico che riesce ad annunciare a dei genitori che il loro bambino è gravemente malato senza sentire il cuore schiantarsi - scriveva Lejeune non è degno del suo mestiere”. A questo Servo di Dio, convinto sostenitore pro life, è dedicata la serata odierna nella Chiesa romana di santa Maria della Vittoria per il ciclo quaresimale “Ritratti di Santi”. A leggere la vita di Lejeune, dagli scritti del padre carmelitano Antonio Maria Sicari, è l’attore Vincenzo Bocciarelli. Paolo Ondarza lo ha intervistato:RealAudioMP3
R. - La cosa che mi ha colpito di più di Jérôme Lejeune è il suo rapporto con i bambini, che soffrivano appunto di questa patologia molto complessa, ma soprattutto il rapporto che aveva anche con i genitori: il conforto, la parola di speranza, di fede che riusciva sempre a trasmettere loro.

D. - L’uomo che riesce ad annunciare a dei genitori che il loro bambino è gravemente malato, senza sentire il cuore schiantarsi al pensiero del dolore che li assalirà - sosteneva Lejeune - non è degno del suo mestiere. Un atteggiamento che tante volte manca, non è comune tra chi opera nel campo sanitario…

R. - Sì, perché il sapere ascoltare è una dote che - soprattutto oggigiorno, che siamo presi da troppa frenesia - è una cosa importante.

D. - Jérôme Lejeune non aveva paura di parlare un linguaggio “politicamente scorretto”, famosi i suoi “no”: no all’aborto, perché diceva “è un omicidio e non da’ sollievo a nessuno”, no alla pillola abortiva, “pesticida umano” …

R. - Sì, è l’amore per la vita. Io spero attraverso questa lettura di poter rendere vivo e sottolineare questo concetto così carico di speranza.

D. - Amare la vita, andare contro la cultura della morte è qualcosa che si può testimoniare non solo facendo il medico, ma lo anche esercitando altre professioni, come ad esempio quella dell’attore?

R. - Sì, io devo dire che da quando ebbi il grande privilegio di recitare per Giovanni Paolo II, ho provato questo senso di sentirmi utile, di poter trasmettere un messaggio “alto”. Per me attore essere interprete di questi testi, è un “privilegio”. Spesso invece si tende subito ad etichettare un attore che si dedica a letture sacre o ad interpretazioni di vite dei santi. Recitare invece cose “alte” è una cosa che arricchisce il percorso di continua ricerca, che secondo me dovrebbe fare ogni artista. Io ho scelto di fare l’attore anche per un senso di ricerca continua, di conoscenza di me stesso, degli altri e dell’essere umano, attraverso il rapporto con il pubblico. Secondo me per essere un bravo attore, bisogna soprattutto lavorare sull’anima. Se non si diventa buone persone non avviene quel meccanismo catartico che invece è fondamentale, perché avvenga quella scintilla tra spettatore ed interprete.

D. - Si avverte una responsabilità maggiore, come attore, quando ci si confronta con testi sacri, o comunque ci si raffronta con figure di uomini di fede …

R. - Sì, per quanto mi riguarda, io cerco di creare un giusto equilibrio tra ciò che sento e la tecnica di recitazione. Si può dire che metto da parte il mio essere “solo” attore, per diventare uno strumento. Trovo che questo sia una forma di preghiera altissima. Mi verrebbe da dire, con il massimo dell’umiltà, che forse qualcuno lassù ha deciso che io faccia questo percorso e diventi in queste circostanze strumento di messaggi “alti”. (cp)







All the contents on this site are copyrighted ©.