Letture quaresimali nella chiesa di santa Maria della Vittoria. Vincenzo Bocciarelli
legge Jerome Lejeune
La compassione è un sentimento che ogni medico dovrebbe avere. Si esprimeva così
Jerome Lejeune, il padre della genetica moderna, colui che scoprì l’anomalia cromosomica
alla base della sindrome di down. Il medico che riesce ad annunciare a dei genitori
che il loro bambino è gravemente malato senza sentire il cuore schiantarsi - scriveva
Lejeune non è degno del suo mestiere”. A questo Servo di Dio, convinto sostenitore
pro life, è dedicata la serata odierna nella Chiesa romana di santa Maria della Vittoria
per il ciclo quaresimale “Ritratti di Santi”. A leggere la vita di Lejeune, dagli
scritti del padre carmelitano Antonio Maria Sicari, è l’attore Vincenzo Bocciarelli.
Paolo Ondarza lo ha intervistato: R. - La cosa che
mi ha colpito di più di Jérôme Lejeune è il suo rapporto con i bambini, che soffrivano
appunto di questa patologia molto complessa, ma soprattutto il rapporto che aveva
anche con i genitori: il conforto, la parola di speranza, di fede che riusciva sempre
a trasmettere loro.
D. - L’uomo che riesce ad annunciare a dei genitori che
il loro bambino è gravemente malato, senza sentire il cuore schiantarsi al pensiero
del dolore che li assalirà - sosteneva Lejeune - non è degno del suo mestiere. Un
atteggiamento che tante volte manca, non è comune tra chi opera nel campo sanitario…
R.
- Sì, perché il sapere ascoltare è una dote che - soprattutto oggigiorno, che siamo
presi da troppa frenesia - è una cosa importante.
D. - Jérôme Lejeune non aveva
paura di parlare un linguaggio “politicamente scorretto”, famosi i suoi “no”: no
all’aborto, perché diceva “è un omicidio e non da’ sollievo a nessuno”, no
alla pillola abortiva, “pesticida umano” …
R. - Sì, è l’amore per la vita.
Io spero attraverso questa lettura di poter rendere vivo e sottolineare questo concetto
così carico di speranza.
D. - Amare la vita, andare contro la cultura della
morte è qualcosa che si può testimoniare non solo facendo il medico, ma lo anche esercitando
altre professioni, come ad esempio quella dell’attore?
R. - Sì, io devo dire
che da quando ebbi il grande privilegio di recitare per Giovanni Paolo II, ho provato
questo senso di sentirmi utile, di poter trasmettere un messaggio “alto”. Per me attore
essere interprete di questi testi, è un “privilegio”. Spesso invece si tende subito
ad etichettare un attore che si dedica a letture sacre o ad interpretazioni di vite
dei santi. Recitare invece cose “alte” è una cosa che arricchisce il percorso di continua
ricerca, che secondo me dovrebbe fare ogni artista. Io ho scelto di fare l’attore
anche per un senso di ricerca continua, di conoscenza di me stesso, degli altri e
dell’essere umano, attraverso il rapporto con il pubblico. Secondo me per essere un
bravo attore, bisogna soprattutto lavorare sull’anima. Se non si diventa buone persone
non avviene quel meccanismo catartico che invece è fondamentale, perché avvenga quella
scintilla tra spettatore ed interprete.
D. - Si avverte una responsabilità
maggiore, come attore, quando ci si confronta con testi sacri, o comunque ci si raffronta
con figure di uomini di fede …
R. - Sì, per quanto mi riguarda, io cerco di
creare un giusto equilibrio tra ciò che sento e la tecnica di recitazione. Si può
dire che metto da parte il mio essere “solo” attore, per diventare uno strumento.
Trovo che questo sia una forma di preghiera altissima. Mi verrebbe da dire, con il
massimo dell’umiltà, che forse qualcuno lassù ha deciso che io faccia questo percorso
e diventi in queste circostanze strumento di messaggi “alti”. (cp)