Oggi pomeriggio - in serata, da noi - il Papa si trasferirà a Cuba, per il 400° anniversario
del rinvenimento della statuetta della Virgen de la Caridad del Cobre. Quale significato
assume allora la visita di Benedetto XVI per il futuro di Cuba? Il nostro inviato
all’Avana Luca Collodi lo ha chiesto al prof. Antonio Maria Baggio,
docente di Filosofia politica presso l’Istituto universitario “Sophia” di Loppiano,
in questo periodo a Cuba per la formazione dei laici cattolici alla Dottrina Sociale
della Chiesa, in collaborazione con la Chiesa cubana:
R. – Penso –
ed è un’opinione personale – che la visita del Papa si inserisca nel programma della
Chiesa: viene come pellegrino. Viene, però, per confermare nella fede i fratelli cubani,
per sottolineare l’elemento di unità. Il tema dell’anno giubilare è: “A Gesù per Maria.
La carità ci unisce”. Il Papa viene a testimoniare l’unità della Chiesa di Cuba con
la Chiesa universale e con l’umanità. E’ un segnale che dice che ciò che accade a
Cuba accade anche nella Chiesa, accade nel mondo e lo guardiamo con attenzione. Penso
che gli effetti che ci potranno essere sono certamente un incremento del dialogo,
perché questa unità nella fede di tutta la popolazione cubana deve manifestarsi anche
accettando le differenze interne. E credo che il dialogo si possa sviluppare su due
fronti. Intanto un dialogo interno tra tutte le componenti della popolazione di Cuba
e poi un dialogo con i cubani della diaspora, cioè i tanti che sono andati via dall’isola
per cercare una vita migliore. Si tratta di un unico popolo, sia come sentimenti,
sia perché molti cubani vivono delle rimesse degli emigrati che vengono inviate soprattutto
dagli Stati Uniti. Forse si potrebbe passare da questa situazione di invio di aiuti
in denaro ad una maggiore partecipazione, cioè ad un aiuto allo sviluppo stesso dell’isola
da parte dei cubani che sono fuori. Certo, bisogna eliminare tutte le posizioni di
antagonismo radicale e di estremismo e ci vuole un’apertura da tutte le parti, perché
solo da questo viene il bene di Cuba. Il Papa può spingere in questo senso: non direttamente,
ma con la sua presenza.
D. – Qual è il ruolo della Chiesa, oggi, nella società
cubana?
R. – C’è un ruolo di riferimento valoriale, perché sempre di più la
Chiesa di Cuba si staglia, con le sue differenti forme di presenza, come il luogo
dei valori, che preserva la dignità della persona e che continua a predicare la fraternità
e la speranza. Questo è importantissimo nella situazione dell’isola, che è una situazione,
per forza di cose, critica. In questo momento, quando si comprende che l’economia
socialista non funziona – e questo non è un torto cubano ma una realtà di fatto che
è comune a tutto il grande blocco socialista che si è creato nel Novecento - e si
cerca di aprire la vita economica all’iniziativa privata delle persone, si creano
difficoltà perché contemporaneamente si continua a sottolineare la visione marxista-leninista.
Durante tutti questi anni di socialismo, la gente non è stata preparata all’iniziativa
privata. La Chiesa può fare molto in questo senso e lo sta facendo, perché sta formando
delle persone ad un’economia libera ma, allo stesso tempo, anche responsabile. Tra
i due sistemi, quello capitalistico selvaggio che si è voluto rifiutare con la rivoluzione
e il socialismo, ci sono molte altre possibilità di economia libera ma anche responsabile,
solidale, civile. Credo che la Chiesa, in questo, possa aiutare molto.
D. –
Dopo l’annuncio del viaggio del Papa a Cuba, il governo ha risposto con il varo dell’indulto
e la liberazione di alcuni carcerati. E’ un segno del dialogo aperto tra Stato e Chiesa?
R.
– Sì. E’ un segno apicale, ma ce ne sono molti altri a livello locale. La liberazione
dei prigionieri è stata una cosa molto opportuna, dal punto di vista di Raul Castro,
che ha ereditato dal fratello questa situazione drammatica, incancrenita, di carceri
piene di prigionieri politici e non vedeva l’ora di risolvere questo problema. Qui
si vede anche l’intelligenza dell’uomo che ha colto l’occasione, offerta dal cardinale
arcivescovo dell’Avana, che invece ha agito non certo per calcolo politico ma per
coscienza di pastore cristiano. Ha chiesto la liberazione dei prigionieri politici
perché questo è ciò che chiede la fede: il rispetto dei diritti umani. Quindi, diciamo
che la Chiesa ha agito non per assecondare un regime, ma in base alla propria missione.
Questo però ha messo anche il governo cubano nelle condizioni di poter fare una cosa
buona e speriamo che sia l’inizio di un percorso lungo il quale, in collaborazione,
si possa servire sempre meglio la realtà del popolo di Cuba.
D. – Ma gli esuli
cubani come guardano al ruolo della Chiesa?
R. – Ci sono le posizioni più diverse
e non bisogna nascondere che c’è anche chi non apprezza il dialogo che si sta svolgendo
ad alto livello, soprattutto tra il cardinale Ortega y Alamino – con tutti i vescovi
– e le istituzioni. Posso però dire, anche per quanto mi risulta, che la maggioranza
dei cubani della diaspora vorrebbe un miglioramento della situazione attraverso il
dialogo, non certo organizzando uno scontro o una pressione, tantomeno violenta, da
fuori. La cosa di cui è importante convincersi è che la situazione può migliorare
soltanto per opera dei cubani, senza ingerenze estranee e attraverso un dialogo che
deve svilupparsi. Quindi, di cosa ha bisogno Cuba? Di amici veri, che aiutino questo
dialogo, che diano ciò di cui le persone hanno bisogno. Una cosa importante, a mio
avviso, è smettere di guardare a Cuba attraverso pregiudizi ideologici, perché se
si continua a guardare Cuba sulla base di una battaglia ideologica che avviene nel
resto del mondo, non si rispetta la realtà di questo popolo. Posso raccontare un episodio:
un’anziana suora colombiana mi disse che, quando fu fatta la rivoluzione e Castro
con i suoi entrò all’Avana, lei – che aveva una scuola cattolica – con tutti i bambini
era lì a festeggiare i rivoluzionari con la bandiera cubana, perché il regime che
veniva abbattuto era un regime odiato, inviso. Ma noi dobbiamo tener conto dei 50
anni successivi, della storia che c’è stata dopo e guardare questa realtà. Quindi,
superiamo l’aspetto ideologico, altrimenti ciascuno – da una parte e dall’altra –
strumentalizzerà sempre Cuba. E questa non è la linea della Chiesa, che invece vuole
un lavoro molto più concreto e sui fatti.
D. – Lei frequenta dal 2005 Cuba
per il suo lavoro di formazione dei laici alla vita sociale del Paese, in collaborazione
con la Chiesa locale. Lei nota segni di novità nella vita quotidiana delle città,
delle persone, del Paese?
R. – Diciamo che materialmente la situazione mi sembra
stazionaria. Quello che si vede è che ci sono esperimenti in atto, come del resto
adesso consente la legge secondo le ultime direttive, di iniziativa privata nel campo
agricolo e nel campo dei servizi. Si vede una maggiore possibilità di dialogo, di
discussione pubblica. Anche recentemente, ho avuto la possibilità di tenere una conferenza
il cui titolo era “La dottrina sociale cristiana e la democrazia”, con un dibattito
pubblico, con diverse posizioni: cosa impensabile soltanto due o tre anni fa. Quindi
è importante registrare che questi spazi ci sono, darne atto e vedere che il dialogo
è qualcosa di continuo e che sta crescendo. E’ difficile capire fino a dove arriverà.
Certo che la Chiesa, che si fa garante di questo dialogo e che propone anche persone
che sono capaci con serenità di condurlo, è – secondo me – una garanzia importante
per il futuro dell’isola. (gf)