Giornata mondiale della sindrome di Down. Intervista con il prof. Zampino del Policlinico
Gemelli
Nel mondo, si celebra oggi la settima Giornata mondiale della sindrome di Down, con
una serie di eventi e convegni organizzati dal Coordinamento nazionale delle Associazioni
persone con sindrome di Down (www.coordown.it). Sugli aspetti della malattia, e sui
luoghi comuni da sfatare, Eliana Astorri ha intervistato il prof. Giuseppe
Zampino, responsabile del Servizio di Epidemiologia e clinica dei difetti congeniti
del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma:
R. – La sindrome
di Down è una condizione clinica dovuta ad una trisomia, cioè tre cromosomi 21. Normalmente
noi abbiamo una coppia di cromosomi – in tutto sono 23 coppie – mentre nella sindrome
di Down abbiamo tre cromosomi 21 invece di due. E’ una condizione caratterizzata da
alcuni segni clinici, tra cui il ritardo psicomotorio, che è l’elemento più importante
nella gestione, ma possono complicare la vita di questi bambini anche le cardiopatie
congenite e alcune altre problematiche cliniche, tra cui otiti medie, problemi di
rifrazione, problemi di patologie autoimmuni, che interessano in modo particolare
la tiroide. Una condizione clinica che interessa il bambino, ma che coinvolge ovviamente
anche la famiglia e tutto il mondo che sta intorno a lui.
D. – E si conoscono
le cause?
R. – L’eziologia non è conosciuta. Quello che sappiamo è che le cromosomopatie
aumentano con l’incrementare dell’età materna. Man mano che l’età materna aumenta,
aumenta questo rischio, passando da un’incidenza di uno su 2000 se si ha 20 anni a
uno su 200 se si ha 37-38 anni.
D. – La sindrome può essere diagnosticata
in quale momento della gravidanza e in che modo?
R. – La sicurezza della diagnosi
normalmente si fa con l’amniocentesi, perché con l’amniocentesi si definisce la trisomia
21. Dal punto di vista ecografico, ci sono delle maniglie che ti permettono di arrivare
alla diagnosi, ma non è una diagnosi di certezza. Dal punto di vista clinico e del
pediatra, la diagnosi può essere posta in epoca neonatale perché ci sono delle caratteristiche
cliniche che rendono riconoscibile il fenotipo, cioè le caratteristiche facciali associate
alle altre caratteristiche, come appunto la cardiopatia, l’ipotonia, l’assenza del
cosiddetto "riflesso di moro", che è uno degli elementi che caratterizza il neonato
normale. Il riflesso di moro può essere attenuato o assente nel bambino con sindrome
di Down.
D. – Come viene seguito un bambino con sindrome di Down, a partire
dalla sua nascita...
R. – Il momento più delicato, quando nasce un bambino
con la sindrome di Down, è ovviamente il momento della comunicazione, cioè informare
i genitori di questo evento, perché ovviamente un genitore immagina che suo figlio
sia l’"eternificazione" di se stesso, cioè un bambino perfetto. Quindi, la notizia
che qualcosa è andato non come doveva è un evento estremamente luttuoso. Molti studi
definiscono nella comunicazione uno degli elementi più importanti nel trattamento,
nella gestione, nell’assistenza del bambino, perché il momento della comunicazione
permette alla famiglia, se fatta in modo adeguato, di accettare prima e meglio il
bambino, per iniziare poi una vita insieme integrata. Questo evento comunicativo è
estremamente delicato e dopo questo evento comunicativo c’è da prendere in carico
il bambino. Quando nasce un bambino con la sindrome di Down è un paradigma di una
condizione di disabilità complessa congenita, che non è solamente un evento sanitario,
ma interessa prima di tutto molti attori sanitari: interessa il pediatra, il genetista,
il riabilitatore, il neuropsichiatra, il radiologo, l’oculista, interessa le infermiere
che dovranno relazionarsi con la famiglia. Oltre alla parte sanitaria, c’è poi bisogno
di un approccio multisettoriale – dal settore sanitario al settore sociale – perché
qui non abbiamo appunto una malattia da combattere, ma un individuo da accettare e
integrare. Quindi, abbiamo bisogno di una stretta relazione tra due settori: quello
sanitario e quello sociale.
D. – Sfatiamo o confermiamo alcuni luoghi comuni
circa la sindrome di Down: ad esempio il fatto che queste persone siano più affettuose
di chi non è affetto da questa sindrome. E’ vero?
R. – Probabilmente, questo
è il maggior problema di un bambino con la sindrome di Down. Quando nasce un bambino
affetto da questa malattia, immediatamente ci rifacciamo a degli stereotipi, per cui
è un bambino affettuoso, un bambino a cui piace la musica, un bambino che ha delle
caratteristiche sempre comuni e costanti. Ora, questa è l’eliminazione della relazione
tra persone, perché le relazioni tra persone sono basate sempre sul fatto che una
persona ci stupisce in qualche modo, che troviamo qualcosa di nuovo nell’altro. Quando
non c’è questo, tutto si appiattisce. In realtà non è così: la sindrome di Down è
una condizione che in qualche modo interferisce sulla vita di un bambino, ma il bambino
ha una sua personalità che è indipendente anche da questa condizione. Per cui, Paolo,
con la sindrome di Down, è sicuramente differente da Maria, da Lucia, da Giovanni,
che sono nella stessa condizione, perché hanno percorsi di vita e famiglie diverse,
situazioni diverse che gli permettono di sviluppare personalità diverse.
D.
– La terminologia non corretta: ancora oggi c’è chi chiama le persone con sindrome
di Down, mongoloidi. Perché?
R. – Perché l’aspetto fisico fa ricordare gli
abitanti della Mongolia. In realtà, già nel ’60, l’Oms ha bandito questa definizione,
per cui si chiama sindrome di Down, dal nome del suo scopritore, e più tecnicamente
si parla di trisomia 21.
L’Associazione Italiana Persone Down organizza questa
sera al Teatro Valle Occupato di Roma il concerto “Canta che…ti passa?”, con Ambrogio
Sparagna e il coro popolare diretto da Anna Rita Colaianni. L’iniziativa, promossa
in occasione dell'odierna Giornata, sostiene il progetto “Che fai sabato sera?” volto
a favorire la socializzazione e l’amicizia tra le persone con tale sindrome. Sentiamo
Giampaolo Celani, presidente della sezione romana dell’associazione, al microfono
di Cristina Bianconi:
R. - Nel fine
settimana, 48 ragazzi, dai 20 anni in su, si organizzano a piccoli gruppi per poter
passare delle ore di tempo libero insieme e per sfruttare le opportunità che una grande
città come Roma può offrire: dal cinema, al ristorante, a un concerto, ecc. I ragazzi
si organizzano grazie anche all’aiuto di operatori dell’associazione. Questo è pensato
perché man mano che crescono, in particolare a partire dalla pre-adolescenza, trovano
sempre meno persone disposte a stare con loro.
D. - Ritiene che quello della
disabilità sia un tema ancora poco considerato nell’agenda istituzionale?
R.
- Sì. Il problema principale è che viene visto come un costo. Le risorse vengono tagliate
sempre di più. Si ritiene che si possa risolvere tutto mettendo un solo insegnante
di sostegno per tre ragazzi all’interno delle classi oppure, nel mondo del lavoro,
al massimo viene richiesto loro di fare una fotocopia. Inoltre, non esistono realtà
di occupazione della giornata in alternativa al lavoro. Poi c’è il problema della
residenzialità, delle case-famiglie, che sono piccole realtà che hanno delle spese
che vengono sostenute sempre più difficilmente dalle amministrazioni e dal privato.
E quindi, da questo punto di vista, tutto resta a carico della famiglia, del suo contesto,
o di associazioni come la nostra che si autofinanziano, ma non sono sufficienti. (bi)