Sud Sudan. Intersos: è sempre emergenza tra rimpatri e gente in fuga
La regione del Jonglei, in Sud Sudan, è da mesi teatro di scontri per la terra e il
bestiame tra comunità rivali. Ancora nei giorni scorsi, Caritas Internationalis e
l’organizzazione "Catholic Relief" hanno messo in guardia contro un possibile inasprimento
del conflitto. Raggiunto telefonicamente da Davide Maggiore, il responsabile
per il Sud Sudan dell’organizzazione umanitaria Intersos, Davide Berruti, ha
descritto le attuali condizioni della regione:
R. – La situazione
è relativamente calma nella contea di Pibor. Qui, Intersos lavora già da qualche anno,
sostenendo le vittime di questi scontri che appartengono all’etnia "murle". Nei giorni
scorsi, però, ci sono arrivate voci di ulteriori attacchi in zone più a nord, nello
Stato del Jonglei. Scontri che riguardano sempre le etnie dei "murle" e quella dei
"lou nuer", che sono storici rivali. Sappiamo bene, purtroppo, che è solo una questione
di tempo: l’attacco subìto dai "murle" – un attacco davvero molto forte, con delle
gravissime perdite e un numero altissimo di morti e di villaggi distrutti – non porterà
a nulla di buono. E’ un ciclo, questo, che non riusciamo ad interrompere.
D.
– Questa emergenza, quindi, ha origine da ragioni profonde?
R. – Sicuramente,
c’è un aspetto tribale ma c’è anche un aspetto del tutto moderno: il Paese è in guerra,
ed è una guerra moderna, di questo secolo, che ha opposto il Sud al Nord e che, ancora
oggi, vede molti focolai di violenza. Anche nella regione di Jonglei queste guerre
hanno una matrice non solo tribale, ma che ha anche a che fare con le risorse, le
materie prime e il potere. Non vorrei che si indicasse come unica causa il fatto culturale,
tribale, perché il popolo del Sud Sudan è composto anche di persone che amano la pace.
D.
– Particolare allarme hanno destato le notizie riguardanti i bambini abbandonati…
R.
– Noi, nei primi giorni del mese di gennaio, subito dopo gli scontri più violenti,
abbiamo registrato un alto numero di minori non accompagnati, i quali superavano il
centinaio solo nella città di Pibor. Tenute presenti anche le difficoltà della raccolta
dati delle cifre precise, direi che il numero è abbastanza preoccupante. A oggi, invece,
non abbiamo più minori non accompagnati, perché anche laddove c’erano minori ed orfani,
sono stati presi in carico dalle famiglie e quindi dai parenti. Ovviamente, questi
minori, e anche le famiglie che li accolgono, vanno poi seguiti perché non hanno mezzi
di sussistenza.
D. – Lo scorso 9 luglio, è stata proclamata l’indipendenza
del Sud Sudan. A diversi mesi da questa data la situazione umanitaria nel Paese è,
in qualche modo, cambiata?
R. – Se è cambiata, è cambiata in peggio. Se osserviamo
i numeri, il grosso delle emergenze è scoppiato dopo il 9 luglio. I numeri dei rifugiati
erano altissimi, senza parlare poi di quelli che sono tornati – oltre 100 mila persone
– e quelli che, da Karthoum e da altre città del Nord del Sudan, si sono spostati
dopo l’indipendenza per raggiungere il Sud Sudan. Solo in qualche caso lo hanno fatto
per libera scelta, e magari perché – contenti per l’indipendenza – sono voluti ritornare
al proprio Paese d’origine. Nella maggioranza dei casi, però, si è trattata per lo
più di una fuga.
D. – Quali sono le priorità del territorio sud sudanese, dal
punto di vista umanitario?
R. – La prima è senz’altro l’approvvigionamento
di scorte di cibo. Abbiamo una tale richiesta di cibo che le stesse Nazioni Unite
non riescono a farne fronte. La seconda importantissima mancanza riguarda l’accesso
a fonti di acqua potabile. Poi c’è, ovviamente, la protezione dalla violenza e anche,
per quanto concerne i minori, il diritto di andare a scuola. Direi però che le cose
fondamentali cui la comunità internazionale deve far fronte sono il cibo e l’acqua.
(vv)