Venti anni d'indipendenza della Bosnia ed Erzegovina. Mons. Sudar: il Paese resta
diviso
La Bosnia ed Erzegovina ricorda il 20.mo anniversario dell’indipendenza dall’ex Jugoslavia,
proclamata il primo marzo 1992 e sancita da un referendum il 3 marzo successivo. In
seguito alla decisione, la guerra già in atto nei Balcani colpì anche il Paese provocando
numerose vittime e compromettendo la convivenza tra musulmani, cattolici e ortodossi.
Oggi l’anniversario ripropone le divisioni tra la Federazione croato-musulmana e la
Repubblica serbo-bosniaca, le due entità create dagli accordi di Dayton nel 1995.
Sul valore della ricorrenza Eugenio Bonanata intervistato mons. Pero Sudar,
ausiliare e vicario generale dell’arcidiocesi di Sarajevo:
R. – Purtroppo
non si vive e non si considera come un fatto che ci unisce, ma un fatto che ancora
ci divide. Si deve trovare un altro modo per mobilitare tutte le forze positive per
appoggiare la Bosnia ed Erzegovina e il suo futuro. Le forze politiche non si sono
ancora messe d’accordo per far funzionare le istituzioni da cui dipende la vita quotidiana
della gente. Si può affermare che, purtroppo, la guerra – una guerra senza le armi,
ma una guerra che danneggia, che impoverisce, che fa paura alla gente – continua e
non si riesce ancora a trovare questo sbocco verso il quale indirizzare il nostro
futuro.
D. – A chi fa comodo un Paese diviso?
R. – Tutti coloro che
non vogliono vedere tutto il male che è stato commesso, i crimini di guerra, le politiche
che hanno spinto questa povera gente a combattere gli uni contro gli altri, perdendo
così anche quel poco che avevano. Accanto a questi, ci sono poi anche le forze internazionali
che hanno i loro interessi e che hanno imposto gli Accordi di Dayton come una soluzione
che non può trasformare questo Paese – come è strutturato adesso - in un Paese moderno,
democratico, capace di integrarsi a livello europeo. Qui ci sono in realtà due Paesi,
ci sono le strutture di due Paesi, che dovrebbero invece funzionare come uno Stato,
e ci sono poi 10 cantoni, che sono a loro volta dei piccoli Stati. Questo è un Paese
che non riuscirebbe a pagare la propria amministrazione anche se fosse un Paese ancora
più ricco. Poi, politicamente, non è governabile.
D. – Nei giorni scorsi,
Benedetto XVI ha inviato un messaggio alla Chiesa locale, chiedendo di impegnarsi
per evitare l’esodo dei cattolici dalla Bosnia: voi che tipo di risposta potere dare
a questo appello?
R. – Prima di tutto dobbiamo – secondo me – proseguire in
quella che è stata la nostra scelta fin dall’inizio: impegnarci per la convivenza
in questo Paese. Senza impegnarsi nella convivenza, senza impegnarsi affinché tutti
possano vivere in pace e in prosperità insieme, noi non riusciremo ad essere fedeli
al Vangelo. Impegnandoci in questa opzione, noi cerchiamo di creare uno spazio, di
far sì che i cattolici trovino la propria sicurezza e quindi comprendano il senso
e il perché devono rimanere. Certamente dobbiamo cercare di fare quello che è possibile
per la Chiesa: ma la Chiesa non può sostituire uno Stato, la Chiesa non può aprire
nuovi posti di lavoro, la Chiesa non può garantire la sicurezza o fare politica.
D.
– Che ruolo ha la componente musulmana sulla strada del dialogo?
R. – Non è
facile dirlo in breve. Ci sono le forze che sono aperte al dialogo e queste son la
maggioranza in Bosnia ed Erzegovina: non è certo facile neppure per loro riuscire
a difendere tutto questo dopo una guerra come quella che si è vissuta in Bosnia. Io
sono ottimista…
D. – Altro elemento di preoccupazione è la povertà…
R.
– I dati ufficiali dicono che la disoccupazione è al 43%; di quelli che lavorano,
la maggioranza non riceve i salari. In un Paese così, bisogna prima di tutto dire
che tutti sono vittime e che tutti sono discriminati dall’ingiustizia, dalla povertà
e dell’insicurezza della vita e del futuro. (mg)