Nella notte degli Oscar trionfa un film muto e in bianco e nero, "The Artist": non
un ritorno al passato ma una celebrazione della magia del cinema e un film di buoni
sentimenti. Migliore attrice la più famosa, amata e applaudita, Meryl Streep, per
la sua superba interpretazione di Margaret Thatcher. Storia contemporanea, sogni sullo
schermo e tensioni del presente, dunque, nel verdetto dei giurati dell'Academy, consegnati
a Los Angeles nel corso di una cerimonia divertente e come sempre seguita da milioni
di telespettatori. Il servizio di Luca Pellegrini:
La rivincita
del film muto, è ovvio, perché The Artist agguanta assai meritatamente, rispettando
le previsioni, i cinque Oscar più importanti: miglior film, regia - di Michel Hazanavicius
-, attore protagonista - Jean Dujardin -, colonna sonora - di Ludovic Bource - e costumi.
Si guarda al passato, dunque, con questa originale e sorprendente invenzione a ritroso,
si torna al 1928 e all'epoca d'oro del film senza parole e senza colori, in cui l'artista
del titolo teme la modernità e il progresso, decade e risorge, scoprendo in questo
"nuovo mondo" le ragioni e le speranze della sua vita e della sua carriera. Trionfano
con questo film i sentimenti buoni, la sfida alle moderne tecnologie, la storia della
settima arte reinterpretata coralmente da un team di splendidi professionisti, di
attori che decidono di esprimersi soltanto con il corpo e i gesti, note viventi sul
pentagramma offerto da una splendida colonna sonora e da ambientazioni e costumi perfettamente
in sintonia. Non poteva mancare - la terza con 17 nomination - la vittoria della più
amata e applaudita attrice vivente: Maryl Streep e la sua Iron Lady, biografia
anche dolente di Margaret Thatcher, negli anni del suo trionfo politico e in quelli
bui della vecchiaia e della malattia, facendo diventare questa biografia anche una
meditazione triste sulla caducità delle cose terrene. Un film discontinuo in cui l'attrice
americana ancora una volta riesce a trasformarsi con una immedesimazione stupefacente
nel personaggio. Ringrazia commossa dal palco tutti i colleghi, quelli presenti e
quelli che non sono più. E' la grande famiglia del cinema. A Hugo Cabret di
Martin Scorsese vanno cinque statuette nelle categorie minori, compresa quella per
la migliore scenografia agli italiani Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, anch'essi
veterani degli Oscar. Sebbene con un verdetto piuttosto penalizzate, la immaginifica
favola del regista americano rimane un gioiello di invenzione e di umanità: anche
in questo caso una celebrazione che il cinema fa di se stesso come arte del sogno
e scrigno per le gioie dei più piccoli. Non protagonisti: l'ottantaduenne Christopher
Plummer e Octavia Spencer, attrice di colore dell'Alabama in vistose lacrime. Oscar
straniero all'Iran e a Asghar Farhadi per Una separazione, già vincitore a
Berlino lo scorso anno dell'Orso d'Oro e del Signis: una storia familiare privata
diventa metafora per esprimere il dissenso. Il regista ringrazia auspicando il rispetto
universale per le culture e mettendo in guardia dall'inciviltà della guerra, mentre
maliziosamente la telecamera inquadra Steven Spielberg. La serata degli Oscar è anche
questo: un messaggio trasversale al mondo. Mentre diretto è quello di una suora in
abiti monastici in platea: è Dolores Hart, abbadessa dell’abbazia benedettina Regina
Laudis a Bethlehem nel Connecticut e membra dell'Aacdemy, protagonista di un documentario
che concorreva per la mitica statuetta nella sua categoria, God is the Bigger Elvis.
Aveva recitato a fianco di Elvis Presley sul finire degli anni '50, poi Giovanni XXIII
e Santa Chiara ebbero la meglio e Dolores entrò nella vita monastica. Anche questi
silenziosi miracoli possono accadere a Hollywood.