Una strage che si sta consumando nel silenzio. Sono oltre 130 i morti provocati in
Libia da cruenti scontri scoppiati negli ultimi giorni tra tribù da sempre divise,
ma le cui rivalità erano rimaste sopite durante il regime del colonnello Gheddafi.
Un Paese che vive, dunque, una difficile transizione e che continua a confrontarsi
quotidianamente con la violenza. Salvatore Sabatino ne ha parlato con Arturo
Varvelli, ricercatore dell’Istituto per gli studi di Politica Internazionale,
autore di due pubblicazioni dedicate al Paese nordafricano:
R. – La situazione
che sta vivendo la Libia adesso è il risultato di un vuoto di potere. Il vuoto di
potere è stato creato dalla caduta del regime di Gheddafi, che – bene o male per 42
anni - ha governato il Paese. Un Paese composto di elementi tribali e da clan che
compongono il tessuto sociale della Libia: seppur non dobbiamo immaginarli seduti
attorno al totem, vediamo come queste costanti storiche, questa composizione sociale
stia emergendo in questi mesi.
D. – Secondo una fonte del Cnt, queste tribù
si scontrano per il controllo dei traffici illeciti: quanto può essere reale e quanto,
invece, sono mossi da poteri politici?
R. – Io credo che ci possano essere
entrambe le cose. Sicuramente nel sud del Paese i traffici illeciti possono essere
un business, in particolare nella zona di Kufra, dove si sono verificati questi ultimi
accadimenti. Penso poi che ci possano essere anche motivazioni politiche, ma politiche
perché legate al controllo del territorio, al controllo della cittadina …
D.
– Queste divisioni interne, secondo lei, quanto possono intralciare il percorso di
normalizzazione della Libia?
R. – Il percorso di normalizzazione della Libia
è molto, molto complesso. Io penso che questo sia un elemento essenziale e fondamentale
che deve trovare una soluzione. Questo è naturalmente legato al fatto che nel Paese
esistono le milizie, le milizie che hanno combattuto contro il regime di Gheddafi
e che non sembrano voler riconoscere pienamente l’autorità centrale: con autorità
centrale intendiamo il Cnt e il governo provvisorio. Dalla loro parte hanno, però,
il fatto di avere la gestione della rendita petrolifera e questo è un elemento, forse,
unificante del Paese: tutti quanti sanno che se vogliono mantenersi, non devono spaccare
questo giocattolo.
D. – Numerose sono le richieste di intervento che giungono
alla Comunità internazionale per far cessare le violenze: richieste che però non trovano
alcuna risposta. Eppure dobbiamo dire che numerosi Paesi avevano spinto per la caduta
di Gheddafi… Ora cosa sta succedendo?
R. – Diciamo che i maggiori promotori
della guerra a Gheddafi, al regime di Gheddafi – essenzialmente la Francia, seguita
poi dalla Gran Bretagna e in seconda battuta, se non in terza, da Stati Uniti e poi
Italia – erano più interessati, in qualche maniera, a farsi i mentori di questa fase
di transizione della Primavera Araba. In qualche maniera si sono illusi che si potesse
guidare in una certa maniera, che si potesse rimanere nel corso della storia e anche
di indirizzarla. E’ quello che è stato fatto in Libia. Dall’altra parte ci sono naturalmente
i Paesi arabi – abbiamo visto un Qatar molto attivo, con grossi interessi – e quindi
saranno probabilmente i Paesi arabi ad essere maggiormente coinvolti in questa fase
di transizione.
D. – Il Cnt avrà la forza per ristabilire la calma e far nascere
quella nuova Libia che oggi stenta a prendere forma?
R. – Io onestamente sono
molto pessimista, molto pessimista proprio per le ragioni espresse in precedenza:
gli aspetti legati alle milizie, alle fazioni che sono ancora presenti e soprattutto,
il punto critico è che il Cnt non ha una legittimità: ha una forte legittimità esterna,
che è stata data da Paesi occidentali e dai Paesi arabi, che lo hanno subito riconosciuto
e accreditato, ma ha una scarsissima legittimità interna. Diciamo che il Cnt viene
guardato quasi come un organo autoproclamatosi. (mg,)