Cinema. Dopo 20 anni l’Orso d’Oro torna in Italia grazie ai fratelli Taviani
La 62.ma Berlinale si conclude con due grandi sorprese. La prima è che per la seconda
volta consecutiva i giudizi della Giuria Internazionale e della Giuria Ecumenica coincidono,
la seconda è che a distanza di oltre 20 anni un film italiano si aggiudica l’Orso
d’oro. Se nel 2011, infatti, le due giurie concordarono su un bel film turco, “Bal”
(Miele) del regista Semik Kaplanoglu, quest’anno tutti si sono schierati per lo straordinario
“Cesare deve morire” di Paolo e Vittorio Taviani. Ambientato nel carcere romano di
Rebibbia, fra detenuti imprigionati per gravi reati quali omicidi, traffico internazionale
di stupefacenti, mafia e camorra, il film segue il casting, le prove e la rappresentazione
del “Giulio Cesare” di Shakespeare secondo i metodi di lavoro del regista teatrale
Fabio Cavalli. Di fronte a corpi scavati dalla vita che cercano una riabilitazione
nell’arte, i due anziani cineasti ritrovano quella rigorosa semplicità di messa in
scena che aveva caratterizzato la loro maturità e ci consegnano un film tanto entusiasmante
quanto necessario. La buona qualità complessiva del concorso berlinese viene sancita
anche dagli altri premi della Giuria internazionale, così come da quelli delle Giurie
parallele. Se, infatti, l’Orso d’argento, Premio Speciale della Giuria, dato a “Just
the wind” dell’ungherese Bence Fliegauf, che racconta degli omicidi mirati di famiglie
rom in un Paese divorato dall’odio razziale, risulta particolarmente importante sul
piano artistico e politico, non meno importante è quello alla Regia, assegnato al
tedesco Christian Petzold, che con “Barbara” ci consegna il problematico ritratto
di una donna incerta fra le lusinghe della fuga e la dignità del lavoro. Così come
ci sembrano estremamente significativi almeno altri due premi, uno speciale Orso d’argento
e il Premio Alfred Bauer, che consacrano il talento di due giovani autori. Il primo
va a “L’enfant d’en haut” della svizzera Ursula Meier, il secondo a “Tabu” del portoghese
Miguel Gomez, che si aggiudica anche il Premio Fipresci della stampa internazionale.
Se il film svizzero è particolarmente forte perché ci rivela il disagio sociale e
il bisogno di umanità esistenti in un Paese ufficialmente prospero come la Confederazione
Elvetica, quello portoghese si conferma la vera sorpresa del Festival, sia per il
suo curioso approccio narrativo, sia per una messa in scena innovativa che, a distanza
di giorni, ancora non smette di affascinare. (Da Berlino, Luciano Barisone)