Marcia della Penitenza. Il vescovo di Locri: meno cristiani anagrafici, più testimoni
del Vangelo
“Amate la pace … amate il bene comune”: è lo slogan della decima Marcia della Penitenza
proposta ai giovani la prima domenica di Quaresima, il 26 febbraio, dalla diocesi
di Locri-Gerace, in Calabria. La manifestazione si svolgerà a Paola e prevede anche
una veglia di preghiera. Lo scopo è quello di sensibilizzare le coscienze ad una conversione
del cuore, che porti ad una fede realmente vissuta nella quotidianità. Lo sottolinea
il vescovo di Locri-Gerace, mons. Giuseppe Fiorini Morosini, che al microfono
di Tiziana Campisi denuncia nella sua diocesi la presenza di una religiosità
formale, mescolata alla criminalità e descrive l'impegno per una nuova evangelizzazione
volta a colmare il divario tra fede e vita:
R. –La Marcia
della Penitenza è nata 10 anni fa, nel contesto di una valorizzazione di questo messaggio
per la Calabria alla conversione, soprattutto rivolto ai giovani, perché ponessero
al primo posto la conversione del cuore. Non ci può essere riforma di alcun genere
- né delle strutture, né delle realtà che ci circondano – se il cuore dell’uomo non
si converte. Noi, con questa marcia, vogliamo, quest’anno, porre attenzione all’impegno
per il bene comune. In genere non coltiviamo il bene comune, siamo troppo individualisti,
troppo egoisti… E se facciamo un’analisi fino in fondo anche del fenomeno ’ndranghetista
o mafioso o criminale, troviamo molto evidente queste elemento: lì c’è proprio l’esaltazione,
l’esasperazione, dell’egoismo, perché chi spaccia droga o chi commercia droga - pur
di far denaro - non si preoccupa del fatto che vende morte o se ci sono famiglie che
finiscono sul lastrico o che piangono per la sorte dei loro figli. Quindi, noi, vorremmo
richiamare, con lo slogan scelto per questo anno, proprio l’attenzione al bene comune,
che deve essere il fondamento, l’elemento, che deve sorreggere la ricerca del bene
individuale.
D. – In che modo la Chiesa oggi s’inserisce in questa realtà?
R.
– La Chiesa si fa carico di questa realtà, soprattutto con l’evangelizzazione. E’
questa la scommessa: attraverso l’evangelizzazione, cerchiamo di far superare una
religiosità di tradizione, una religiosità frutto di cultura, che si trasmette all’interno
delle famiglie, alcune volte, senza la consapevolezza della scelta di Gesù Cristo
e del Vangelo. Spesso dobbiamo registrare assurdità: c’è gente caduta nel crimine,
‘ndranghetisti che hanno con loro immagini di santi. Questo è il segnale forte, il
segnale purtroppo tragico, di una religiosità che conserva l’immagine cristiana, ma
che non ha un fondamento cristiano. Allora qui la Chiesa deve essere impegnata fino
in fondo ad evangelizzare.
D. – Come vescovo, quali sono i problemi che sente
più forti nella sua diocesi?
R. – Il problema più forte è proprio questa dicotomia
tra fede e vita, che contagia un po’ la realtà. Gli adulti vivono una religiosità
che non sempre si radica nella vita; il mondo dei giovani, soprattutto degli adolescenti
- e qui viviamo quello che si vive, penso, in tutta l’Italia – vive questa grave crisi
di allontanamento. Ragazzi e giovani sono staccati dalla vita ecclesiale, anche se
poi li vediamo lì a vivere i Sacramenti… Questo è il grande interrogativo: questi
Sacramenti che diamo non producono cristiani veri. Questo è lo sforzo che come diocesi
stiamo facendo: cercare di reimpostare tutta una evangelizzazione che cerchi di superare
questa situazione di fatto: battezzati, cresimati, ma non cristiani!
D. – Cosa
spera e cosa sogna per la sua diocesi?
R. – Io sognerei una Chiesa che parli
veramente al cuore dei fedeli, che faccia capire che devono mettersi sulla strada
dell’impegno evangelico veramente serio. Preferirei avere meno cristiani iscritti
nei registri, ma più cristiani impegnati nella testimonianza; non avere una massa
di cristiani allo stato anagrafico, ma che non incidono in una vita evangelica veramente
rinnovata. (mg)