Corea del Sud: i vescovi chiedono di rivedere la legge sull’aborto
In occasione del 39.mo anniversario della promulgazione della legge che ha introdotto
l’aborto in Corea del Sud, i vescovi del Paese asiatico hanno ribadito il loro “no”
all’interruzione di gravidanza e hanno chiesto alla classe politica di rivedere la
normativa sulla salute riproduttiva. Come riferisce l'agenzia Zenit, da vari anni
ormai l’episcopato sudcoreano celebra ogni anno una Messa il lunedì più vicino all’8
febbraio, giorno in cui nel 1973, sotto l’allora regime militare, fu introdotta, senza
alcuna previa consultazione popolare, la “Legge sulla salute della madre e del bambino”.
A presiedere la liturgia nella cattedrale di Myeongdong di Seoul, alla quale hanno
partecipato circa un migliaio di fedeli, è stato quest’anno il vescovo della diocesi
di Cheongju, mons. Gabriel Chang Bong-hun, presidente del Comitato di Bioetica della
Conferenza episcopale. Rivolgendosi ai fedeli, il presule ha chiesto l’abrogazione
dell’articolo 14 della legge, che “incoraggia le donne a ricorrere all’aborto”. “La
Chiesa cattolica insegna – ha ricordato il vescovo - che la vita umana comincia al
momento del concepimento” e che “l’aborto e la distruzione di embrioni umani sono
crimini gravi che minacciano la vita”. Una revisione della normativa, realizzata nel
luglio del 2009, ha ridotto il limite legale entro il quale si può abortire dalla
28° alla 24° settimana della gravidanza, eliminando inoltre malattie come l’emofilia
e l’epilessia dall’elenco di patologie per l’aborto detto “terapeutico”. Secondo il
sito cattolico Eglises d’Asie, in Corea del Sud l’aborto è una “realtà massiccia”:
su una popolazione di circa 48,7 milioni di abitanti, il governo registra circa 340.000
aborti all’anno. Secondo la Chiesa cattolica, invece, il numero reale è molto più
elevato, cioè circa 1,5 milioni. La spiegazione per tale discrepanza è semplice: essendo
l’aborto un intervento che non viene rimborsato dalla casse malattia, viene pagato
spesso in contanti o “sotto banco” e non compare dunque nelle statistiche ufficiali.
In un Paese con un tasso di fertilità molto basso (tra i più bassi a livello mondiale),
l’aborto serve solo a gonfiare gli incassi di ginecologi ed ostetrici. Le voci che
si alzano contro l’aborto sono “abbastanza rare”, prosegue Eglises d’Asie.
Si sottolinea in particolare che la legge del 1973 è stata approvata sotto un regime
militare e che, essendo oggi un Paese democratico, la Corea della Sud deve modificare
il testo. Inoltre, così osservano, il governo è molto lassista nell’applicazione della
normativa. Secondo il presidente dell’Associazione coreana dei medici pro-vita, il
dottor Cha Hee-jae, la legge viene infatti quotidianamente violata. Il medico ha citato
l’esempio di un centro di accoglienza per donne vittime di violenze sessuali che ha
consigliato ad una donna messa incinta da un amico di dichiarare di essere stata stuprata
per poter abortire senza alcuna difficoltà. “Il centro conosce perfettamente l’articolo
14 e fornisce i suoi consigli in funzione di esso”, ha detto il dottor Cha, chiedendo
con urgenza una modifica della legge. Secondo uno studio del 2005, dei circa 340.000
aborti ufficialmente censiti appena il 4,4% rientra nel quadro dell’aborto legale.
Tutti gli altri - sottolinea Eglises d’Asie - sono frutto di convenienza personale,
sociale o economica. Il governo di Seoul, sempre più preoccupato per l’impatto della
denatalità e del crescente invecchiamento della popolazione, sta mettendo in atto
una politica per favorire le nascite. Sui muri della metropolitana sono apparsi manifesti
con il seguente messaggio: “Abortendo, voi abortite il futuro”. Ma una revisione della
legge sull’aborto non è ancora all’ordine del giorno. (M.G.)