Duecento anni fa nasceva Charles Dickens, magistrale narratore dei chiaroscuri dell'essere
umano
La luce di “Oliver Twist” contrapposta alle tinte cupe di “David Copperfield”. In
mezzo a queste due sponde ideali si colloca gran parte del percorso narrativo e stilistico
di uno dei più grandi romanzieri inglesi di tutti i tempi, Charles Dickens, del quale
si celebrano i 200 anni dalla nascita. Un autore impregnato della mentalità vittoriana
dei suoi tempi: capace di indignazione nei riguardi di abomini come la schiavitù,
ma anche di cecità nei riguardi dei soprusi dell’Impero britannico. Capace di scolpire
magistralmente le bassezze della natura umana ma anche di concepire la conversione
di un cuore, quello del suo Ebenezer Scrooge del celeberrimo “Canto di Natale”, quando
il diamante della bontà emerge da sotto la crosta di un’intollerabile grettezza. Su
questi e altri aspetti di Dickens, Alessandro De Carolis ha intervistato il
prof. Gino Scatasta, docente di Letteratura inglese all’Università di Bologna:
R. – Dickens,
in un certo senso, rappresenta le tendenze del suo tempo e attraversa tutto il periodo
vittoriano, anche se il periodo vittoriano inizia alla fine degli anni Trenta ed è
caratterizzato inizialmente da questo forte ottimismo, da questa tendenza all’idea
che si possano risolvere questioni sociali, politiche e senza particolari problemi.
Sono gli anni dell’Impero britannico e i primi romanzi sono caratterizzati da una
fiducia nella possibilità di cambiare le cose. Più si va avanti e più la produzione
di Dickens diventa cupa, diventa “dark”. Davvero, “dark” è il termine forse più adatto
per gli ultimi romanzi, quelli degli anni Sessanta e Settanta. A tutto questo, poi,
si unisce un interesse fortissimo per quelli che sono gli aspetti della vita quotidiana:
in particolare Dickens è bravissimo nel tratteggiare personaggi che sono immortali,
con una capacità che prima di lui aveva avuto probabilmente solo Shakespeare. Non
possiamo dimenticare, fin dall’inizio, gli amici di Pickwich, i ladri della banda
di Oliver Twist, il cattivo di David Copperfield. Spesso i più memorabili sono proprio
i cattivi più dei buoni…
D. – Dickens nasce come cronista: in che modo lo stile
dei suoi tanti reportage entra in quello dei suoi romanzi?
R. – Sono fondamentali.
Dickens aveva un’innata capacità di osservazione. Era un grandissimo camminatore e
camminava sia di giorno che di notte, anche a causa della sua insonnia. Percorreva
chilometri e chilometri in campagna, ma soprattutto in città, dove vedeva personaggi,
sentiva rumori, udiva suoni, vedeva delle scene… Questo era fondamentale per la sua
immaginazione. Essere un cronista, allora, era per lui il punto di partenza. Poi,
non aveva soltanto l’interesse per l’aspetto umano, ma anche per gli aspetti sociali
della sua epoca: la povertà, la miseria che in quei anni era enorme; Londra era la
più grande metropoli con contraddizioni impressionanti.
D. – A proposito della
sensibilità di Dickens verso i mali della sua società, quale posizione aveva? Ad esempio,
viaggiando negli Stati Uniti si sa che ebbe parole durissime contro la schiavitù dei
neri…
R. – Sì. Dickens era davvero un vittoriano medio nel senso che aveva
una capacità di reagire alle ingiustizie del suo tempo e poi era completamente cieco
rispetto ad altre, che probabilmente non vedeva come ingiustizie. Sulla schiavitù
fu molto violento, anche perché odiava un po’ gli americani per problemi sui diritti
e la schiavitù, ovviamente, rientrava in questa sua critica alla società americana.
Però, rispetto alle rivolte che ci furono contro l’Impero britannico in India fu violentissimo
nel dire che bisognava reprimere con violenza e con forza… In questo caso, sembra
non capire assolutamente alcuni aspetti del colonialismo inglese, che erano certamente
non dissimili da quello che era lo schiavismo negli Stati Uniti. Oppure, il suo rapporto
con le donne, che è stato molto criticato negli ultimi libri perché, agli occhi dei
contemporanei, il modo in cui trattò la moglie non è esattamente il tipico esempio
del buon marito e dell’amante della famiglia che invece Dickens cercò di dare di se
stesso.
D. – Duecento anni dopo, Dickens parla a noi in che modo?
R.
– E’ un problema interessante, perché ho visto che moltissimi convegni e conferenze
sono su Dickens “nostro contemporaneo”. Se uno guarda alla fortuna critica di Dickens,
si accorge, per esempio, che c’è stato un momento in cui l’aspetto sociale, politico,
è passato in primo piano. In altri momenti, si è più considerato il suo aspetto di
narratore, la sua capacità di incantare attraverso la parola, attraverso delle storie.
Oggi, possiamo un po’ vedere entrambi questi aspetti: Dickens era un grande realista,
ma era anche un grande narratore. Ed è interessante anche vedere come Dickens lavorasse
in modo seriale: quasi tutti i suoi romanzi vengono pubblicati a puntate, quindi con
una struttura simile a quella che oggi ha una fiction televisiva, e teneva sempre
avvinti i lettori che aspettavano ansiosamente il mese successivo per sapere cosa
sarebbe accaduto ai loro personaggi. Questo è un altro aspetto che andrebbe rivalutato:
la capacità di Dickens di narrare serialmente e come questo sia diventato oggi un
modo importante con altre forme di narrazione che sono trasmigrate dalla letteratura
ad altri campi.(mg)