A 50 anni dal Concilio: mons. Capovilla rievoca i sentimenti della vigilia di Giovanni
XXIII
Appena pochi giorni dopo la sua elezione al Soglio pontificio, Giovanni XXIII confidò
al suo segretario particolare, don Loris Capovilla, l’intenzione di indire un nuovo
Concilio ecumenico. Nel 2012 la Chiesa si appresta a celebrare il 50.mo dell’inizio
dell’assise, inaugurata l’11 ottobre 1962. A distanza di così tanti anni, lo stesso
mons. Loris Capovilla – oggi 96.enne – rievoca le ansie pastorali e la profondità
di fede con le quali Giovanni XXIII si preparò al grande evento, che avrebbe trasformato
la storia della Chiesa contemporanea. L’intervista è di Luca Collodi:
R. – Quando
il Papa me ne parlò la prima volta, era Papa da appena cinque giorni. Fece un cenno
vago, disse: “Sul mio tavolo si riversano tanti problemi, interrogativi e preoccupazioni.
Ci vorrebbe un qualcosa di singolare e di nuovo, non solo un Anno Santo”. Nel Codice
di Diritto canonico, allora da poco rifomato, c’è un capitolo chiamato “De Concilio
ecumenico”. Più avanti, me ne ha parlato un’altra volta, e io sono sempre rimasto
in silenzio. E’ venuto poi quella sera del 21 dicembre del 1958, me ne riparlò e mi
disse: "Il tuo superiore ti ha accennato a questo grande disegno, ti sembra essere
ispirazione del Signore? Tu finora non ha detto neanche una parola...”. E toccandomi
il braccio, mi disse: “Il fatto è che tu ragioni un po’ umanamente, come un impresario
che fa un progetto e chiama l’architetto, i consulenti, che si intende con le banche.
Per noi invece è già un gran dono di Dio accettare una buona ispirazione e parlarne.
Non pretendo di arrivare a celebrarlo, a me basta annunciarlo”.
D. –
Quali erano le preoccupazioni sulle quali Papa Giovanni aveva posto la sua attenzione?
R.
– Si trattava dei problemi che erano sul tappeto, i problemi che hanno tutti: teologici,
morali, storici ed anche economici. Molte volte questi sono anche un po’ aggrovigliati
e non si risolvono con un semplice colloquio, specialmente se riguardano la Chiesa
universale e la Chiesa particolare. Il Papa disse che eravamo noi a dover trattare
queste questioni, studiarle, indagarle ed approfondirle insieme. E poi, sempre insieme,
sull’altare della Confessione di Pietro, trarre le conclusioni, che sono poi i 16
documenti che oggi brillano come lampade sulla tomba dell’Apostolo. Anche dinanzi
a tutti coloro che dicevano che ci voleva un gran coraggio, alla sua età, egli rispondeva
che non era lui a doverlo fare: “Il Concilio lo fa il Signore, lo fa la Chiesa nel
suo insieme. Noi siamo le sentinelle del momento. Dopo un Papa, ne viene un altro".
Non è vero che lui aveva fretta: desiderava solo dire come dovevamo camminare, cioè
tutti insieme. Entriamo in Concilio per fare cosa, prima di tutto? Per professare,
in faccia al mondo, la nostra fede. Ed infatti, il giorno dell’apertura del Concilio,
il momento più solenne non è stato, a mio avviso, quello della grande processione
dei 2500 vescovi, questo “fiume bianco” che attraversava Piazza San Pietro. Per me,
il momento più solenne è stato quando il Papa, toltosi lo zucchetto e inginocchiatosi
in faccia all’assemblea, intonò: “Ego, Ioannes, Ecclesiae catholicae episcopus, credo
in Unum Deum, Patrem Onnipotentem”. Quando, cioè, professò l’atto di fede.
D.
– Lei come spiega la crisi dell’Occidente, la crisi dei valori, la crisi economica
e l’insoddisfazione sociale dell’inizio del Terzo Millennio?
R. – C’è
una cosa che mi ha sempre colpito: la “dottrina dei carismi”, che si trova al capitolo
12, della prima Lettera ai Corinzi. Lì c’è scritto che Dio distribuisce dei doni,
ma viene detta anche un’altra cosa molto importante. Al versetto 7 del capitolo 12,
per me c’è la parola decisiva e determinante per la condotta del cristiano: quello
che hai è tuo, la tua intelligenza, i tuoi beni materiali e culturali, la tua fede
è tua; però ti è stata data “ad comunem utilitatem”, cioè per il bene comune. (vv)