Giornata della memoria: l'epopea di un superstite di Auschwitz
Nel 67.mo anniversario dall’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata
Rossa si celebra oggi la Giornata internazionale dell’Onu dedicata alla memoria delle
vittime dell’Olocausto. Eventi commemorativi anche in Italia dove per il dodicesimo
anno ricorre il Giorno della Memoria per le vittime del nazismo e del fascismo, della
Shoah e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati:
circa 12 milioni le persone morte nei lager, tra cui sei milioni di ebrei. Impegnato
per mantenere viva la memoria di quei drammatici anni è Piero Terracina: fu
deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia, composta da otto persone. Fu l’unico
a tornare in Italia. Paolo Ondarza lo ha incontrato:
R. – Quando
racconto, rivivo quei momenti. E’ uno stress terribile. Io credo che sia, intanto,
un impegno che noi sopravvissuti abbiamo nei riguardi di quelli che Primo Levi ha
chiamato “i sommersi”. Credo sia necessario parlare con i giovani, perché i giovani
rappresentano il futuro e devono sapere quello che è stato. E questo è il massimo
che io possa pretendere come compensazione per la fatica che faccio, perché faccio
fatica…
D. – Ancora oggi c’è chi non crede che sia accaduto realmente,
o comunque chi vuole negare che sia accaduto realmente tutto quanto …
R.
– Guardi, io non auspico che venga istituita la galera per chi vuole negare. Ora,
questa è gente che certamente, se fosse vissuta allora, sarebbe stata dalla parte
dei carnefici e probabilmente sarebbero stati carnefici essi stessi. Come si può negare?
Quando io dico: siamo partiti in otto della mia famiglia e quando sono ritornato mi
sono ritrovato solo, ma dove sono finiti gli altri? Quando io parlo della deportazione
del 16 ottobre 1943 da Roma, quando furono deportati 1.023 innocenti, compreso un
bambino ancora senza nome - e sono tornati in 16! - che cosa possono dire? Che sono
scomparsi? Certo: ad Auschwitz non risulta che siano arrivati. Ma io me li ricordo.
Me li ricordo lì, sulla rampa dell’arrivo, l’abbraccio di mamma, le parole di papà…
ricordo tutto! Sono tornato solo, di otto persone…
D. – Privati della
dignità, trattati come bestie – forse peggio? – offesi nel pudore: come è stato possibile
poi risalire, dopo tanta prostrazione?
R. – Si dice: ma poi la vita
riprende, la vita continua… Non è vero. La vita finisce. Poi ne comincia un’altra.
Posso dire che io oggi conduco una vita assolutamente normale. Ho tante gioie, ho
tanta gente che mi vuole bene e tanta gente a cui voglio bene. Essere circondato da
persone che ti vogliono bene: io credo che sia il massimo che un essere umano possa
pretendere dalla vita. E quello che non possiamo dimenticare, quello che non accetto,
è proprio quello che è accaduto allora!
D. – Prova ancora rabbia per
quello che è accaduto?
R. – Direi: rabbia proprio, no. Intendiamoci,
la rabbia potrebbe portare anche a compiere gesti inconsulti. Se si fosse presentata
l’occasione di vendicarmi, non ne sarei stato capace. E penso che se lo avessi fatto,
se mi fosse capitata l’occasione e lo avessi fatto, sarei sceso allo stesso livello
dei miei aguzzini, e io non sono un aguzzino. Avrei certamente invocato giustizia,
ma mai vendetta.
D. – In quei momenti, che cosa l’ha aiutata a sopravvivere,
ad andare avanti? C’era un pensiero?
R. – Direi che sono stati i miei
15 anni: a quell’età non si vuole morire. Si rimane aggrappati alla vita, a qualsiasi
costo. Certo, purtroppo credo che in certi momenti mi sono dovuto dimenticare di tutto
e di tutti, perché dovevamo pensare soltanto a sopravvivere in quel momento. Sapevamo
che non c’era futuro: io sono stato deportato nel campo di Auschwitz-Birkenau, il
campo costruito dalle “SS” con rigore scientifico per dare la morte e per ridurre
in fumo e cenere migliaia – dico migliaia! – di esseri umani ogni giorno. Anche mentre
stavano dormendo c’era pericolo: perché potevano tornare le “SS” e ordinare una nuova
selezione. Non c’era un momento di tregua, non c’era un momento di tranquillità, né
giorno né notte. Ogni momento era il momento in cui si sarebbe potuti morire. Sapevamo
che tanto, la nostra unica via d’uscita era quella del forno crematorio. E naturalmente,
vivere in quelle condizioni non è vita: posso dire che era soltanto morte. La morte
era tra noi, in ogni momento: quando rientravamo la sera, molte volte dovevamo portare
i nostri compagni che non avevano resistito. E rientrando al campo non era finita:
quando rientravamo al campo, dovevamo assistere alle punizioni e tra queste, l’impiccagione…
D.
– In molti si sono tolti la vita, nell’esperienza dei campi di sterminio, e anche
dopo, perché non sono riusciti a sopportare quello che si portavano dentro. Lei ha
mai pensato che non valesse più la pena vivere?
R. – No. Sinceramente,
no. Anche perché durante la seconda vita che ho avuto, ho avuto anche tante gioie.
Il fatto di poter raccontare, di poter trasmettere la memoria ai giovani, è un ritorno
positivo. (gf)