2012-01-26 15:35:15

Domani la Giornata della Memoria. La testimonianza di una superstite della Shoah


Un’occasione per ricordare la Shoah, le vittime del nazionalsocialismo e del fascismo e in onore di chi a rischio della propria vita ha protetto i perseguitati. E’ la giornata della Memoria che ricorre domani 27 gennaio, in occasione del sessantasettesimo anniversario dall’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa. “Se capire è impossibile, conoscere è necessario”, ha scritto Primo Levi, testimone della barbarie, scomparso 25 anni fa. Per “conoscere” meglio, dunque, questa pagina buia della storia dell’umanità vi proponiamo oggi la testimonianza di Vera Michelin Salomòn, deportata politica nel carcere tedesco di Aichach. L’intervista è di Paolo Ondarza: RealAudioMP3

R. - Io mi occupavo del movimento studentesco clandestino, che si era raccolto nell’unione degli studenti contro l’occupante tedesco e naturalmente contro la Repubblica di Salò.

D. - Per voi ci fu l’arresto e una condanna. Una condanna, in particolare, per lei e per una sua amica…

R. - La mia amica, non era ancora fidanzata con mio cugino, Paolo Buffa, con cui si è poi sposata. Lei rientrò a casa con una borsa piena di volantini contro i tedeschi: quella per i nazisti fu la prova che la nostra era una casa da svuotare.

D. – Nella casa c’erano anche suo cugino, Paolo Buffa, e Paolo Petrucci che fu assolto in un primo momento dal tribunale militare, ma poi trovò la morte nella tragedia delle Fosse Ardeatine, tragedia della quale lei fu testimone diretta…

R. – Sì, ero lì a Regina Coeli. Questo è il mio ricordo più penoso, più angoscioso, anche più del viaggio di deportazione in Germania, dell’anno di carcere, di tutto il resto, perché alla Fosse Ardeatine si vide, in pieno, la ferocia dell’occupante tedesco.

D. - Quali sentimenti avevate in quei momenti?

R. - Va detto che io avevo vent’anni e a quell’età ci si sente abbastanza invulnerabili, si spera sempre di uscirne… Non sapevamo nulla, che cosa ci avrebbe aspettato, perché benché i governanti sapessero e tutta l’Europa sapesse che cosa c’era in Germania, le notizie alla gente normale non arrivavano. Quasi nulla veniva pubblicato dai giornali. Quindi, il sentimento era di attesa, di sapere che fine avremmo fatto. Certo, dopo le Fosse Ardeatine c’era l’incognita per tutti noi.

D. – Al processo lei venne condannata a tre anni di carcere da scontare in Germania. Il viaggio avvenne all’interno di un carro bestiame…

R. – La cosa strana è che mi sono quasi totalmente dimenticata di quel viaggio, ho dormito tutto il tempo. Eravamo almeno 40 persone, sempre al buio. Siamo scesi a Monaco e portati a Dachau in una prigione di transito. Dopo un mese circa, siamo stati destinati ad Aichach, una prigione nell’Alta Baviera.

D. – Durante la prigionia eravate consapevoli di quanto vi poteva aspettare?

R. - Non sapevamo nulla, filtravano le notizie del fronte che erano quelle che ci interessavano più di tutto. Eravamo sicurissime che sarebbe finita e speravamo al più presto.

D. - Quindi una speranza forte…

R. – Sì, c’era una povera signora che piangeva tutto il tempo, diceva ogni volta: ma voi vi raccontate i film, non sapete che tanto qui moriremo tutti… Noi cercavamo di reagire. Ci facevano lavorare in cella… Mi hanno anche mandato per due mesi a lavorare in campagna, perché i prigionieri dei tedeschi lavoravano tutti e hanno sostenuto l’economia di guerra della Germania. Il fatto di stare in prigione era comunque un privilegio: anche se non mangiavamo niente, vivevamo però fra quattro mura, più o meno tutelate, non eravamo esposte come nei lager alle persecuzioni fisiche, alle botte...

D. - Vi giungeva notizia di quanto accadeva nei campi di concentramento?

R. – Niente. Noi abbiamo saputo qualcosa solo dai militari americani che quando sono arrivati erano così scioccati da quello che avevano visto che hanno dovuto sostituirli subito dopo: sono rimasti dieci giorni in zona e poi li hanno mandati a riposarsi in America e hanno messo al loro posto forze fresche che non avessero avuto lo shock dei campi.

D. – Da allora, ha preso il via un suo impegno per far conoscere, per sensibilizzare…

R. – Sì, un impegno maturato tardi, nel senso che al ritorno nessuno voleva saperne più niente…

D. – Oggi perché è importante ricordare? Secondo lei c’è una sufficiente memoria storica?

R. - Più che memoria, che viene fatta un po’ ritualmente – oggi quasi tutti sanno che cosa erano i campi di concentramento - ciò che non è stata sufficientemente indagata è la ragione per cui tutto è potuto succedere in un Paese come la Germania, di vecchia civiltà, di grande cultura: non ci si è chiesti sufficientemente quali siano le matrici che fanno rinascere certi istinti, certe pulsioni che sono nell’uomo e che possono venire fuori da determinate condizioni sociali…

D. – Come guarda oggi a quanto ha vissuto?

R. – Sono serena, perché le tragedie della guerra sono state così terribili che io mi sono considerata fortunata. Noi non abbiamo perso il nostro nome, non abbiamo avuto il numero sul braccio, eravamo comunque persone. Dal passato oggi cerco di capire qualcosa del presente. Non è che abbia dimenticato, le sofferenze fisiche si possono dimenticare: non si dimenticano le sofferenze spirituali, il patimento di essere cancellati come persone umane. Sì, penso che questa sia una cosa che ti porti dietro sempre. (bf)







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