Domani la Giornata della Memoria. La testimonianza di una superstite della Shoah
Un’occasione per ricordare la Shoah, le vittime del nazionalsocialismo e del fascismo
e in onore di chi a rischio della propria vita ha protetto i perseguitati. E’ la giornata
della Memoria che ricorre domani 27 gennaio, in occasione del sessantasettesimo anniversario
dall’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa. “Se capire è impossibile,
conoscere è necessario”, ha scritto Primo Levi, testimone della barbarie, scomparso
25 anni fa. Per “conoscere” meglio, dunque, questa pagina buia della storia dell’umanità
vi proponiamo oggi la testimonianza di Vera Michelin Salomòn, deportata politica
nel carcere tedesco di Aichach. L’intervista è di Paolo Ondarza:
R. - Io mi
occupavo del movimento studentesco clandestino, che si era raccolto nell’unione degli
studenti contro l’occupante tedesco e naturalmente contro la Repubblica di Salò.
D.
- Per voi ci fu l’arresto e una condanna. Una condanna, in particolare, per lei e
per una sua amica…
R. - La mia amica, non era ancora fidanzata con mio
cugino, Paolo Buffa, con cui si è poi sposata. Lei rientrò a casa con una borsa piena
di volantini contro i tedeschi: quella per i nazisti fu la prova che la nostra era
una casa da svuotare.
D. – Nella casa c’erano anche suo cugino, Paolo
Buffa, e Paolo Petrucci che fu assolto in un primo momento dal tribunale militare,
ma poi trovò la morte nella tragedia delle Fosse Ardeatine, tragedia della quale lei
fu testimone diretta…
R. – Sì, ero lì a Regina Coeli. Questo è il mio
ricordo più penoso, più angoscioso, anche più del viaggio di deportazione in Germania,
dell’anno di carcere, di tutto il resto, perché alla Fosse Ardeatine si vide, in pieno,
la ferocia dell’occupante tedesco.
D. - Quali sentimenti avevate in
quei momenti?
R. - Va detto che io avevo vent’anni e a quell’età ci
si sente abbastanza invulnerabili, si spera sempre di uscirne… Non sapevamo nulla,
che cosa ci avrebbe aspettato, perché benché i governanti sapessero e tutta l’Europa
sapesse che cosa c’era in Germania, le notizie alla gente normale non arrivavano.
Quasi nulla veniva pubblicato dai giornali. Quindi, il sentimento era di attesa, di
sapere che fine avremmo fatto. Certo, dopo le Fosse Ardeatine c’era l’incognita per
tutti noi.
D. – Al processo lei venne condannata a tre anni di carcere
da scontare in Germania. Il viaggio avvenne all’interno di un carro bestiame…
R.
– La cosa strana è che mi sono quasi totalmente dimenticata di quel viaggio, ho dormito
tutto il tempo. Eravamo almeno 40 persone, sempre al buio. Siamo scesi a Monaco e
portati a Dachau in una prigione di transito. Dopo un mese circa, siamo stati destinati
ad Aichach, una prigione nell’Alta Baviera.
D. – Durante la prigionia
eravate consapevoli di quanto vi poteva aspettare?
R. - Non sapevamo
nulla, filtravano le notizie del fronte che erano quelle che ci interessavano più
di tutto. Eravamo sicurissime che sarebbe finita e speravamo al più presto.
D.
- Quindi una speranza forte…
R. – Sì, c’era una povera signora che piangeva
tutto il tempo, diceva ogni volta: ma voi vi raccontate i film, non sapete che tanto
qui moriremo tutti… Noi cercavamo di reagire. Ci facevano lavorare in cella… Mi hanno
anche mandato per due mesi a lavorare in campagna, perché i prigionieri dei tedeschi
lavoravano tutti e hanno sostenuto l’economia di guerra della Germania. Il fatto di
stare in prigione era comunque un privilegio: anche se non mangiavamo niente, vivevamo
però fra quattro mura, più o meno tutelate, non eravamo esposte come nei lager alle
persecuzioni fisiche, alle botte...
D. - Vi giungeva notizia di quanto
accadeva nei campi di concentramento?
R. – Niente. Noi abbiamo saputo
qualcosa solo dai militari americani che quando sono arrivati erano così scioccati
da quello che avevano visto che hanno dovuto sostituirli subito dopo: sono rimasti
dieci giorni in zona e poi li hanno mandati a riposarsi in America e hanno messo al
loro posto forze fresche che non avessero avuto lo shock dei campi.
D.
– Da allora, ha preso il via un suo impegno per far conoscere, per sensibilizzare…
R.
– Sì, un impegno maturato tardi, nel senso che al ritorno nessuno voleva saperne più
niente…
D. – Oggi perché è importante ricordare? Secondo lei c’è una
sufficiente memoria storica?
R. - Più che memoria, che viene fatta un
po’ ritualmente – oggi quasi tutti sanno che cosa erano i campi di concentramento
- ciò che non è stata sufficientemente indagata è la ragione per cui tutto è potuto
succedere in un Paese come la Germania, di vecchia civiltà, di grande cultura: non
ci si è chiesti sufficientemente quali siano le matrici che fanno rinascere certi
istinti, certe pulsioni che sono nell’uomo e che possono venire fuori da determinate
condizioni sociali…
D. – Come guarda oggi a quanto ha vissuto?
R.
– Sono serena, perché le tragedie della guerra sono state così terribili che io mi
sono considerata fortunata. Noi non abbiamo perso il nostro nome, non abbiamo avuto
il numero sul braccio, eravamo comunque persone. Dal passato oggi cerco di capire
qualcosa del presente. Non è che abbia dimenticato, le sofferenze fisiche si possono
dimenticare: non si dimenticano le sofferenze spirituali, il patimento di essere cancellati
come persone umane. Sì, penso che questa sia una cosa che ti porti dietro sempre.
(bf)