2012-01-24 16:00:48

La vedova di una delle vittime di Nassiriya: sono cristiana, ho scelto di perdonare


“Nessuna rivalsa”. Così ha commentato Margherita Caruso, moglie del brigadiere Giuseppe Coletta, morto a Nassiriya nove anni fa, gli arresti compiuti ieri in Iraq di sette membri della cellula terroristica che uccise 19 italiani e 9 iracheni. Solo pochi anni prima, la coppia aveva perso il figlio Paolo, di 6 anni, per leucemia. Un dolore immenso superato grazie alla fede. Lo conferma al microfono di Benedetta Capelli la stessa Margherita Caruso, oggi responsabile dell’Associazione Coletta: “Bussate e vi sarà aperto”, nata nel 2004 e impegnata in vari progetti in Burkina Faso:RealAudioMP3

R. – Avendo sentito ieri di nuovo questo nome, Nassiriya, uno ha avuto un sussulto al cuore perché il tempo passa e aiuta anche a lenire un po’ il dolore che uno ha. Però, risentire di nuovo il nome di quella località riporta davvero a quel momento, al 12 novembre del 2003: è bastato soltanto sentire il nome e tutto è passato davanti veloce, tutto quello che è accaduto. Poi, sinceramente, la prima immagine è quella del corpo bruciato di Giuseppe, a terra, dei corpi dei ragazzi a brandelli… Io ricordo che quando mi vennero a dire quello che era accaduto, quando il colonnello dei Carabinieri mi informò della notizia, tra l’altro piangendo, ricordo che la prima cosa che ho pensato non è stata chi fosse stato a commettere questa cosa così orribile, ma proprio il fatto che la persona che amavo non sarebbe più tornata a casa. Non è stato un pensiero di vendetta, ma questo grazie alla fede in Cristo perché umanamente nessuno sarebbe in grado di reagire così.

D. - Come è riuscita anche a spiegare alla vostra bambina quanto accaduto?

R. – Maria all’epoca aveva tre anni, quindi era molto piccola per comprendere, anche se alle volte i bambini sono molto più propensi di noi ad accogliere determinate cose, anzi adesso che è un po’ grandicella è lei che dà degli insegnamenti a me. Ieri le ho detto: hanno arrestato quelli dell’attentato a Nassiriya, dove è morto papà con i suoi colleghi. Cosa provi, cosa pensi? Mi ha risposto: “Mamma, veramente non provo niente, tanto quello che faceva papà era per i bambini”. E’ stata una bella cosa.

D. - Il perdono è un percorso, a volte anche difficile, tortuoso…

R. - Io credo che più che un percorso sia una grazia. E’ necessario seguire la nostra fede, seguendo Cristo in tutto il Vangelo, quando viene accolto, quando viene inchiodato alla Croce, tutto il Vangelo, non solo magari la parte che ci piace di più. Questo credo sia ciò che scaturisce dalla nostra fede: la coerenza con tutto quello in cui crediamo, perché se pensiamo di amare Cristo quando tutto fila liscio nelle nostre famiglie… Invece, bisogna renderlo partecipe della nostra vita in tutto quello che ci circonda, renderlo presente nelle nostre vite e non sentendolo come un sacrificio. E’ una grande gioia che nessun altro essere umano può dare all’altro; anche avendo provato tutti e due i dolori, come madre e come moglie, io non ho sperimentato un amore più grande di questo.

D. - Lei citava il fatto di aver provato un dolore anche come madre. Oltre avere perso Giuseppe, poco prima assieme a suo marito aveva perso Paolo: due dolori grandissimi per una donna, forse veramente la fede è stata per lei una medicina, un balsamo...

R. - Oltre agli amici, alle persone che mi sono state accanto, vicino a me c’era il pensiero della Vergine Maria: pensare di aver condiviso come Lei questo dolore per la perdita di un figlio così grande - e lo dico con molta umiltà perché è la Vergine Maria - non posso in alcun modo paragonarmi a Lei. Credo che il dolore di madre sia universale per tutte le donne che vivono questa tragedia, perché tale è. Ho chiesto a lei la forza di affrontare questo dolore assieme a Giuseppe e per certi versi la morte di Paolo è stata affrontata insieme. Invece, al momento della morte di Giuseppe ero sola: sola con la certezza - ma una certezza anche inconsapevole - che Cristo era accanto, era lì, lui sapeva il mio dolore ancor prima che accadesse. La certezza era che se la tragedia non era stata evitata era perché qualcosa di più grande c’era dietro: la Croce come conseguenza, poi la Risurrezione, questa è la forza più grande.

D. – Lei diceva: c’è qualcosa di più grande. Adesso, il fatto che l’impegno di suo marito nei confronti dei bambini che già precedentemente aveva assistito e accudito stia continuando che significato ha?

R. - Ha un significato grande nel nome di Giuseppe, ma soprattutto - al di là di Giuseppe perché lui rimarrà sempre il papà di Maria e rimarrà sempre mio marito - è per rendere visibile tutto questo di cui parliamo, per rendere visibile l’amore di Cristo. Giuseppe agiva in quel modo, perché era l’amore di Dio a farlo agire, anche se lui non sapeva che quello che faceva lo faceva in nome di Dio ma era quello il senso.

D. – Margherita, le volevo chiedere come stanno andando i progetti in Burkina Faso per quanto riguarda l’orfanotrofio, i pozzi…

R, - Adesso tutto bene. Ci recheremo lì perché abbiamo costruito un orfanotrofio, il refettorio, cinque pozzi per l’acqua e abbiamo iniziato l’ospedale.

D. - Tra i pozzi che avete costruito, ce n’è uno che avete dedicato a Eluana Englaro, che lei ha incontrato per ben due volte…

R. – Per me, l’incontro con Eluana è stata una grazia dopo Nassirya, perché tutto è scaturito da lì, da quell’immenso dolore, da quel dolore che schiaccia ma non sotterra, non ti affossa. Cristo mi ha dato la grazia di incontrare nella mia vita persone meravigliose. L’incontro con Eluana nel suo silenzio, di una persona come tante altre, disabili come tutti abbiamo a casa, in quel suo silenzio mi ha dato tantissimo, è come se avesse detto una miriade di parole. Aver visto anche le condizioni di Eluana, come una ragazza qualsiasi… Tutte le bugie che erano state dette su di lei ed essere anche portavoce di questo, avendola vista personalmente, è stato un altro segno di Cristo nella mia vita: l’essere - nel senso buono del termine e senza presunzione - testimone anche di questo e poter dire la verità alla gente. E’ la cosa che io ho capito in questi anni, dopo Nassirya: forse anche un po’ prima nella mia vita, ma dopo due grandi dolori si riesce a testimoniare in maniera diversa, concreta, perché non sono parole raccontate da altri e quindi la gente sta ad ascoltarti. La verità su Eluana è proprio quella di dire che non era attaccata a macchine, che respirava del suo respiro, che era una donna a tutti gli effetti, che le era ritornato il ciclo mestruale, che lei ha detto “mamma”, che le suore la portavano a Messa, che lei sorrideva… Tutte cose che la gente non sapeva. Ecco perché è giusto anche testimoniare, anche se costa tanto andare in giro per l’Italia, magari lasciare la mia bambina e andare a testimoniare Cristo: c’è bisogno di questo, c’è bisogno di parlare nel nome di Gesù, c’è bisogno di farlo. (bf)







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