Intervista in esclusiva della Radio Vaticana al presidente del Consiglio Mario Monti
Crisi economica, importanza dell’Euro, rapporti Stato-Chiesa. Sono alcuni dei temi
affrontati dal presidente del Consiglio Mario Monti in un’intervista concessa
alla nostra Radio, in coordinamento con l’Osservatore Romano, dopo la visita in Vaticano
di sabato scorso. Una visita, definita dallo stesso premier “un’esperienza profonda
e indimenticabile”. Ma sentiamo lo stesso Monti intervistato da Luca Collodi
e Alessandro Guarasci (nella foto con il premier Monti ed il nostro direttore
padre Federico Lombardi).
D. – Presidente
Monti, in un mondo di profondi cambiamenti economici e politici, sia a livello nazionale
che internazionale, quali sono – secondo Lei – gli aspetti più qualificanti dei rapporti
tra Stato e Chiesa? Lei, in particolare, vede dei cambiamenti in prospettiva?
R.
– In uno “spazio largo”, nel mondo globalizzato, dove l’idea stessa di confine non
è più rigida, il rapporto tra gli Stati e la Chiesa può essere un ponte, un varco
che abbatte i muri degli egoismi nazionali e rinsalda il senso di un’appartenenza
che significa rispetto, responsabilità, solidarietà. La tradizione diventa “identità
arricchita”, risorsa, riscoperta della comunità come possibilità di riscatto per ogni
persona, storia e prospettiva di vita.
D. – Presidente, condivide il
fatto che le difficoltà dell’Occidente siano causate da una crisi etica e di valori,
prima ancora che economica? Insomma, incide su questo – a suo avviso – anche la secolarizzazione
e l’indebolimento delle “radici cristiane” dell’Europa?
R. – Nessuno
è in grado oggi di stabilire quando finirà l’attuale crisi economica e finanziaria,
poi diventata sempre di più crisi sociale; ma ciascuno di noi ha il dovere di scegliere
come chiudere il “tempo della povertà”, interrogandosi seriamente su quale sia la
ricchezza vera. La crisi è conosciuta, a volte perfino drammatica, per le conseguenze
materiali. E’ meno conosciuta, ma non meno grave, per le “povertà nascoste” che pure
ha causato: emarginazione, perdita di speranza, denatalità, disgregazione delle comunità,
delle famiglie, delle realtà associative. Non sempre noi vediamo drammi e deserti
interiori che affliggono anche i giovani. In passato, la fine delle crisi economiche
più gravi è venuta a coincidere con fatti storici drammatici, ed oggi si è parlato
– in alcuni giornali – di “guerra finanziaria”, di “attacco all’Europa”, di “conflitti
all’interno stesso dell’Europa”. Oggi più che mai, la storia e la sua memoria chiedono
l’impegno ed il coraggio di tutti ad ogni livello. Nessuna parola cade nel vuoto.
Nessuna parola può non essere ascoltata. Anche un apparente, iniziale insuccesso può
aprire strade nuove di dialogo e di crescita civile, morale, sociale. La giustizia
e la pace sono la risposta più efficace alla perdita di senso che la crisi economica
ha, in modo latente, provocato nella quotidianità delle persone. La crisi, per essere
superata in tutti i suoi gravi profili, richiede quindi di guardare in avanti con
coraggio, con speranza, ma anche di riscoprire le proprie radici.
D.
– Presidente, la classe dirigente italiana – ma naturalmente anche quella europea
– è consapevole che è in atto una frattura tra il Paese reale e il Paese legale? Cioè,
che quanto pensano i politici spesso non corrisponde al sentire comune della gente?
R.
– Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha riconosciuto nel 150° anniversario
dell’Unità d’Italia una tappa fondamentale per un compiuto esame di coscienza collettivo.
Il che significa innanzitutto interrogarsi sul valore della convivenza civile e sulla
credibilità delle Istituzioni. I rappresentanti delle Istituzioni sono chiamati ad
assolvere al proprio compito secondo quanto sancito nella nostra Costituzione: “con
disciplina e onore”. I cittadini hanno diritto di chiedere condotte trasparenti e
credibili, ma non è convogliando i malesseri sociali su facili via di fuga che si
ristabilisce un ordine ragionevole e un rapporto corretto tra opinione pubblica e
Istituzioni. Un “tecnico”, come sono stato chiamato, può liberamente affermare che
l’antipolitica e l’antiparlamentarismo causano danni che nel tempo possono dimostrarsi
insidiosi. Ogni soggetto, individuale e collettivo, privato e pubblico, è chiamato
ad essere “migliore”, in ogni ruolo – piccolo o grande – che assuma. Essere credibili
cosa significa? Io credo che significhi soprattutto anteporre il bene comune a ogni
interesse di parte. Il senso dello Stato si misura sulla volontà e sulla coerenza
di ciascuno di tradurre la coscienza e il sentimento per la democrazia in regola di
vita, esigente per se stessi e solidale per gli altri.
D. – Presidente,
la crisi è grave. C’è qualcuno, secondo Lei, che a livello internazionale ha interesse
a far saltare la moneta unica? Insomma: serve una maggiore integrazione europea, secondo
Lei?
R. – Serve una maggiore coesione europea e serve combattere un
rischio grave e cioè che l’euro, punto di arrivo, perfezionamento di un processo e
pinnacolo molto audacemente innalzato sulla cattedrale dell’integrazione europea,
si trasformi invece in un fattore di disintegrazione, di conflitto psicologico. Già
solo “psicologico”, un conflitto è molto grave in Europa: tra Stati, tra popoli, tra
popoli del Nord, popoli del Sud, come se ci fossero delle “esclusive” distribuite
geograficamente tra chi è parsimonioso e serio, chi è viceversa prono all’indisciplina
individuale e collettiva. Ora, pensare che la causa della crisi sia l’euro è non solo
un errore economico, ma un pretesto o, peggio, un tentativo di scaricare sull’Europa
problemi anche di altre realtà, che coinvolgono ulteriori responsabilità e ben altri
interessi. E’ però responsabilità di noi europei aver lasciato consolidare la sensazione,
a volte, che la moneta prevalesse sulla bandiera dell’Europa nella quale – ricordiamocelo
sempre! – le stelle sono disposte in un rapporto armonioso, dando il giusto “orientamento”.
Oggi, rinunciare all’euro significherebbe abbandonare all’incertezza i più deboli
ed i più poveri. L’euro resta uno strumento di straordinaria incidenza nella vita
delle persone, ma non è il fine dell’azione comunitaria, che resta il “bene comune”.
La crisi si supera alzando la “bandiera dei valori” sopra gli stessi “interessi della
moneta”, e riconoscendo come la moneta, a sua volta, non è certo solo un fatto tecnico.
L’euro per nascereha avuto bisogno infatti di essere accompagnato da
una serie di vincoli per una responsabile gestione dei bilanci pubblici. Ebbene, in
questo senso, l’euro ha indotto tutti i Paesi che hanno voluto abbracciarlo a rispettare
meglio anche valori etici fondamentali, come quello dell’equità tra le generazioni.
Non è più possibile, in modo irresponsabile, gravare le generazioni future di un pesante
fardello di debito pubblico prima ancora che nascano, perché ci sono – in una visione
responsabile – dei vincoli posti proprio come regola di convivenza tra i Paesi che
partecipano all’euro. Ho voluto fare questa considerazione che mostra come sarebbe
veramente paradossale se una punta così avanzata nella costruzione europea dal punto
di vista tecnico-politico, ma anche, in fondo, civile ed etico, si trasformasse in
un fattore di arretramento.
D. – Presidente Monti, più volte Papa Benedetto
XVI e anche i vescovi italiani hanno sollecitato i cattolici a partecipare al rinnovamento
etico e culturale della politica nazionale. Come vede Lei questo rinnovato protagonismo
dei cattolici nella vita sociale italiana, a servizio del bene comune?
R.
– Il magistero del Papa e la sua personale, forte testimonianza, il contributo importante
della Santa Sede e della Conferenza episcopale italiana sono elementi propulsivi e
critici di fondamentale rilievo. Di fronte al bene comune non si può fuggire. Poco
dopo la sua elezione, Benedetto XVI usò un’espressione ancora più chiara: “Non fuggire,
per paura, davanti ai lupi”. Penso che anche di fronte alla tempesta così prolungata
che stiamo vivendo, dobbiamo coltivare sapientemente - e anche pazientemente, direi
- la speranza. Alla crisi, cittadini e Istituzioni non devono rispondere fuggendo
come di fronte ai lupi, ma restando saldamente uniti. Con le parole del Santo Padre
possiamo dire: “con i mezzi della nostra ragione dobbiamo trovare le strade”. Il che
non significa affatto relegare la fede ad una nicchia di intimistico personalismo:
al contrario, significa riaffermarne l’autonomia rispetto alla politica, non renderla
– sono parole di Joseph Ratzinger – un “mero corollario teorico ad una determinata
visione del mondo”.
D. – Presidente, per raggiungere il pareggio di
bilancio sono state aumentate le imposte. Lei ritiene che già da quest'anno possano
essere gettate le basi per una sorta di quoziente familiare, per rendere più equi
i sacrifici?
R. – Il pacchetto di misure per il consolidamento dei conti
pubblici, presentato dal Governo al Parlamento, che l’ha prontamente approvato in
dicembre, ha chiesto contributi a tutti. In quest’anno 2012 verrà dimostrato, con
risultati certi, che alcuni, molti cosiddetti “soliti ignoti” diventeranno presto
“soggetti noti” dal punto di vista fiscale. Un primo segno è già contenuto nel Decreto
“Salva Italia”: si è prevista una clausola di favore per l’Imu a seconda del numero
di figli. In tempo di crisi, e più in generale entro la cornice dell’equità, vale
quanto affermava Giuseppe Toniolo: “Chi più può, più deve; chi meno può, più riceve”.
D. – Presidente, non crede che un controllo fiscale troppo duro sui
comportamenti degli italiani possa diffondere paura tra chi le tasse le paga, senza
toccare la piaga dell’evasione fiscale?
R. – Credo di no. E’ un’azione
che non è certo ispirata a mire di vessazione o di accanimento. Non bisogna avere
nessuna paura, ma la certezza che chi non rispetta la legge non resterà nell’ombra:
chi oggi evade pensa di trarne vantaggio, sicuramente reca danno ai concittadini e
offre ai propri figli – in definitiva – un pane avvelenato; consegnerà loro, forse,
alla fine della propria vita qualche euro di più, ma li renderà cittadini di un Paese
non vivibile.
P. – Presidente, Lei ha detto che il suo Governo non sarà
impegnato solo sul fronte economico-finanziario. Da più parti si chiede un cambiamento
della legge per la cittadinanza ai minori stranieri. Lei pensa che sia arrivato il
tempo per affrontare anche quest’aspetto, che – ricordiamo - è stato evocato anche
dal Presidente della Repubblica?
R. – Io avverto come giusta la fatica
di depurare il linguaggio da troppi eccessi e forzature che hanno contaminato il dibattito
pubblico. Certe espressioni pronunciate fuggono al nostro pieno controllo e non si
sa bene a quale approdo possono arrivare. Questo ha spesso – purtroppo - caratterizzato
in passato e ancora caratterizza il modo in cui i cittadini e le persone si rapportano
ai temi dell’immigrazione e dell’integrazione. Dignità e sicurezza delle persone possono,
anzi debbono stare insieme: non si tratta di contemperare valori contrastanti, ma
di saldare istanze pienamente legittime che tutti avvertiamo. Non c’è sicurezza senza
rispetto, ma non si può obbligare nessuno alla bontà, si deve convincerlo. Serve il
“coraggio della verità” che, in molti casi, si traduce nell’esercizio intelligente
del buon senso.
D. – Presidente Monti, ci può essere una “via italiana”
alle liberalizzazioni, compatibile con le tradizioni e i valori della società nazionale?
R.
– Penso proprio di sì, anzi ci può essere una via che valorizza e rende più solide
e più genuine quelle tradizioni, senza addossarle ad altri nella vita sociale. Ciò
che va sotto il nome di liberalizzazioni è in realtà un insieme di misure per introdurre
nell’economia e nella società italiana, con una più sana concorrenza, maggiori spazi
per il merito, soprattutto a beneficio dei giovani, degli esclusi. Le tradizioni qualche
volta - dobbiamo riconoscerlo – sono diventate corporazioni, sono diventate chiusure
corporative e non sempre sono state vissute come un bene di cui essere orgogliosi,
ma da far circolare – per così dire – con altri beni in una società composita, che
sempre più deve cambiare, si spera in armonia, perché il Paese abbia un ruolo significativo
nella comunità internazionale, sia anche competitivo: questo è un termine economico,
che denota un atteggiamento di coraggio, di desiderio – anche qui – di non fuggire
di fronte ai lupi della competizione internazionale. Ebbene, per me liberalizzare
significa – in questo senso che ho cercato di descrivere – offrire benefici, risparmi
e benessere a un numero più elevato di cittadini, senza per questo compromettere l’esistenza
di nessuno. Anche se in Italia forse è più difficile che altrove, ciascuno può contribuire
all’interno del proprio settore ad una operazione di trasparenza contro privilegi
eccessivi, per meglio garantire i giusti diritti. Ognuno di noi è produttore di qualche
cosa, offre il suo tempo, le sue energie, il suo lavoro nell’ambito di un’impresa,
di un’amministrazione, pensa alle tutele che vorrebbe sempre di più avere nel proprio
ambito lavorativo, ma è contemporaneamente anche consumatore, è contemporaneamente
anche risparmiatore e noi dobbiamo cercare di ricomporre in unità le tutele dei singoli
aspetti per avere una società più aperta, più dinamica e - non ricuso il termine –
più competitiva.
D. – Presidente, quali sono le vie principali attraverso
cui la Chiesa in Italia può contribuire maggiormente a sostenere lo Stato?
R.
– Nella formazione, nell’integrazione, nella responsabilità civile e morale, il contributo
della Chiesa è davvero prezioso. Quando ho incontrato il Santo Padre ho vissuto un’esperienza
profonda e indimenticabile. E’ stata una visita ufficiale e spero – pur emozionato
– di aver rappresentato il mio Paese in modo adeguato. Le mani del Papa sono mani
forti che sostengono il peso di molti; sono mani che rassicurano, perché a loro volta
si lasciano sorreggere. Il Santo Padre ha chiaramente affermato che “la distinzione
tra l’ambito politico e quello religioso” serve a tutelare la libertà religiosa e
a riconoscere la responsabilità dello Stato verso i cittadini. Il Presidente Napolitano
ha dichiarato che “il senso della laicità dello Stato abbraccia il riconoscimento
della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso”. Mi riconosco pienamente
nel criterio della distinzione e della reciproca collaborazione. Certamente la fede
è un valore, innanzitutto da vivere e da condividere secondo lo stile e la sensibilità
propria di ciascuno, dentro un perimetro di libertà comune a tutti. Considero di estrema
e immutata attualità le parole scritte da Joseph Ratzinger nel 1968: “Tanto il credente
quanto l’incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede. Nessuno può sfuggire
completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede. E chissà mai che proprio il dubbio
non divenga il luogo della comunicazione”. (gf/mg)