In Africa con la ricchezza crescono anche le sfide sul piano politico
Torniamo a parlare di crescita economica in Africa. Oltre alla questione di come trasformare
la ricchezza di pochi in sviluppo per tutti e al problema dello sfruttamento delle
risorse del continente da parte di Paesi esterni, bisogna parlare delle prospettive
politiche. Fausta Speranza ha intervistato il prof. Giampaolo Calchi Novati,
docente di storia moderna e contemporanea dell’Africa all’Università di Pavia:
R. – Se si
guarda alla crescita del pil, probabilmente in molti Paesi africani c’è una crescita
superiore all’aumento della popolazione, e questo dovrebbe rappresentare un progresso
netto. Questo, evidentemente, non esclude forme di divisione, di differenze tra Stato
e Stato e, soprattutto, grosse disuguaglianze – in realtà, maggiori, paradossalmente!
– all’interno. E’ noto che il Sud Africa – una volta si diceva il Brasile – ma probabilmente
oggi è il Sud Africa il Paese nel quale le disuguaglianze tra ricchi e poveri sono
maggiori, in assoluto nel mondo, spesso con qualche sovrapposizione tra proprietà,
ricchezza, benessere e posizione razziale.
D. – Purtroppo, va un po’
di moda dire che l’economia va per conto suo e non c’è abbastanza ‘governance’ politica
per gestirla: questo vale per l’Occidente, per l’Unione Europea; e per l’Africa vale
tanto più il rischio di una crescita economica fuori da ogni regola della politica
…
R. – Probabilmente, il problema dell’Africa, rispetto ad altre regioni,
è l’arretratezza del sistema politico, della capacità degli Stati di mantenere un
ordine politico che sia in grado di mettere a frutto la crescita economica che, come
si sa, è anche piuttosto schiacciata sulla divisione del lavoro di origine “coloniale”,
cioè ancora in Africa i Paesi che crescono di più, con qualche eccezione come forse
soprattutto il Sud Africa, riprendono, ricopiano ancora il sistema di esportazione
di prodotti primari e grande dipendenza da capitali, tecnologia e anche governance
dall’esterno. Sicuramente credo che si possa dire che per l’Africa questa crescita
è una sfida per la sua capacità di governare.
D. – Tra i rischi di queste
presenze esterne, c’è anche quello del terrorismo internazionale …
R.
– Sì: purtroppo, quando l’Africa ha incominciato a praticare il principio – prima
a dichiararlo, a proclamarlo e poi, in pratica, cercando anche di praticarlo – della
soluzione africana alle crisi africane, si è trovata di fronte a crisi che non sono
più “solo” africane: molti dei conflitti hanno ormai una rilevanza internazionale
ed extra-africana. In particolare, l’Africa è una specie di confine del conflitto
a scala mondiale: per esempio, viene sintetizzato nell’espressione della “War on Terror”:
il Sahara è un confine tra Africa araba e Africa nera, ma è soprattutto un confine
dove passa una specie di contrasto-confronto con relativa militarizzazione dello scontro
tra mondo occidentale e quella nebulosa che viene definita “islamismo politico”. Non
necessariamente al Qaeda, ma qualcosa che possa essere o strumentalizzato o avvicinato
o confuso con al Qaeda. E’ un confine molto evidente che ha portato da una parte alla
militarizzazione della zona sahariana, che è una zona tendenzialmente e tradizionalmente
di passaggio e quasi di passaggio libero – lecito o illecito che sia – perché i confini
sono mal segnati, le autorità sono abbastanza nebulose … Questo non è più vero, e
questo naturalmente ostacola la libertà di movimento ed è causa, essa stessa, di brigantaggio
e altre forme che sono paradossalmente in linea con la instabilità e la militarizzazione
che si vorrebbe, invece, evitare. Anche la stessa influenza cinese non è del tutto
indolore: diciamo che la stessa crisi in Libia è stata forse – se non del tutto, almeno
in parte – determinata da una volontà di potenze europee di bloccare l’espansione
cinese almeno in questa parte del continente. L’Africa, oggi, è di fatto il terreno
dello scontro a livello mondiale, molto più che altre regioni del mondo, compreso
il Medio Oriente dove, in un certo senso, la stessa Cina non osa sfidare apertamente
gli Stati Uniti. In Africa, invece, la competizione è aperta. (gf)