In Somalia si stringe il cerchio intorno alle milizie Shabab
In Somalia continua a imperversare la violenza. Reparti militari etiopici sono entrati
nel Paese con l’obiettivo, così come già fatto dal Kenya, di fronteggiare le scorribande
delle milizie islamiche degli Shabab. Si sta stringendo il cerchio intorno al gruppo
di ispirazione qaedista? Benedetta Capelli lo ha chiesto a Mario Raffaelli,
presidente di Amref, organizzazione che si occupa di progetti umanitari in Africa,
ed esperto dell’area:
R. – E’ da
qualche tempo che si parla della possibilità di un’offensiva coordinata – anche se
non esplicitamente, ma di fatto – tra queste tre operazioni militari: quella di Amisom,
quella del Kenya, che dovrebbe anch’essa diventare poi con cappello Amisom, perché
il parlamento kenyota ha deciso appunto di aderire all’operazione internazionale,
e questa ultima, da parte etiopica. E certamente, dal punto di vista militare – come
si è visto sempre, ogni volta che c’è stato uno scontro di tipo “convenzionale” tra
esercito regolare e gli Shabaab – non c’è dubbio che le forze convenzionali sono destinate
a prevalere. Resta però il problema che se a queste vittorie militari non segue poi
anche una soluzione di tipo politico, l’unico effetto è una mutazione del fenomeno
degli Shabaab. Così come a Mogadiscio si sono ritirati ricominciando un’azione di
guerriglia tradizionale, la stessa cosa potrebbe accadere nelle altre aree: potremmo
assistere ad una mutazione degli Shabaab in un movimento sempre più di tipo terroristico
e con attività probabilmente non solo in Somalia, ma anche nei Paesi vicini.
D.
– Questo movimento è un movimento unitario, oppure ci sono all’interno correnti diverse?
R.
– Non è mai stato un movimento unitario: ci sono correnti diverse sia nel gruppo dirigente,
in particolare tra quelli maggiormente collegati al network terroristico nel senso
proprio, e la parte che invece ha un’agenda radicale ma di tipo somalo, che persegue
la creazione di una Somalia “islamica”, sia pure radicale. Poi, ci sono ulteriori
differenze in quelle aree dove gli Shabaab si sono affermati più che con un messaggio
religioso, sfruttando le contraddizioni claniche. E’ evidente che queste cose possono
funzionare quando c’è un controllo anche di tipo amministrativo, come è stato per
lungo tempo ed è ancora in parte in tre quarti del Sud Somalia: nel momento in cui
questi interventi militari cancellano la presenza formale degli Shabaab, questo non
potrà più accadere. Ecco perché rimane il nucleo duro dei combattenti, inferiori per
numero ma più pericolosi come attività terroristica.
D. – Che reazione
c’è da attendersi da parte di questo movimento?
R. – Quella che già
si sta vedendo a Mogadiscio, appunto, dove si è tornati agli assalti terroristici
tradizionali e che potrebbe accadere anche nelle altre città importanti controllate
dagli Shabaab, qualora venissero cacciati militarmente. A meno che non ci sia, finalmente,
una capacità – una volta cacciati gli Shabaab – di creare delle istituzioni locali
percepite come genuine dalla popolazione e quindi dopo la vittoria militare, avere
anche una vittoria politica. Ma in assenza di questo, si tratta solo di un cambiamento
di strategia militare da parte di questi movimenti e, ripeto, anche con il rischio
che il coinvolgimento così aperto da parte di truppe dei Paesi vicini possa portare
all’esportazione, in questi Paesi, delle attività terroristiche: una cosa che si è
già vista in Uganda con l’attentato, alla fine dei campionati mondiali di calcio,
con i 70 morti che ci furono all’epoca; e qualcosa di questo tipo si comincia ad intravedere
anche in Kenya con piccoli attentati – per ora – che però hanno già causato vittime
civili. (gf)