Somalia: la fame uccide un bambino ogni sei minuti
Continua l’emergenza alimentare in Somalia, per cui gli Stati Uniti hanno stanziato,
la scorsa settimana, altri 113 milioni di dollari. I dati diffusi dalle organizzazioni
umanitarie sono allarmanti: la fame uccide, in media, un bambino ogni sei minuti.
Davide Maggiore ha chiesto a Nino Sergi, presidente dell’organizzazione
non governativa Intersos, impegnata nel Paese, se si sono registrati miglioramenti
dopo la molto attesa stagione delle cosiddette “piccole piogge”, cadute violente in
alcune regioni:
R. – Quasi
vent’anni fa, con la stessa gravità della siccità e della fame in Somalia, proprio
questo fenomeno delle piccole piogge è stato quello che ha messo fine alla fame dell’epoca.
Si sperava che fosse così anche adesso; lo è in alcune aree, lo è meno in quelle zone
che hanno subìto forti piogge e inondazioni. Progressi ce ne sono stati, per fortuna.
Lo sforzo che è stato fatto è stato grande. Si è potuto operare con organizzazioni
somale, che ormai negli anni, per fortuna, si sono formate.
D. – Il
lavoro delle organizzazioni umanitarie sul campo è sempre più difficile, soprattutto
nelle aree sotto il controllo dei miliziani di al Shabaab o esposte ai loro attacchi…
R.
– Pochi giorni fa, sono stati uccisi tre operatori umanitari, che operavano a sostegno
dei profughi somali; è difficile conoscere le cause. Le organizzazioni internazionali
purtroppo non possono entrare nel centro-sud della Somalia con personale internazionale
perché è troppo rischioso - potremmo essere sequestrati - ma ci sono parti di queste
realtà che, pur definendosi Shabaab, sono più aggregazioni di clan con un’agenda molto
somala e molto nazionalista. E’ possibile stabilire un dialogo con questa parte, isolando
l’altra più estremista, legata ad obiettivi che non sono obiettivi somali. Io penso
che finchè non si stabilisce un nuovo dialogo tra somali, la situazione non potrà
essere risolta.
D. – Oltre che militare e agricola, la crisi è anche
sanitaria. Dai campi profughi di Baidoa arrivano notizie di epidemie che colpiscono
i bambini. Cosa si può fare per affrontare une’emergenza che non ha un solo fronte?
R.
– Nell’area nostra gli operatori, i medici, gli infermieri dell’ospedale che ormai
sosteniamo da anni sono impegnati in questi campi. Poi ci sono altre realtà ospedaliere
di Mogadiscio… C’è tutta una rete di assistenza, che è insufficiente, perché non possiamo
allargarla in questo momento visto che noi stessi operatori non possiamo entrare,
non possiamo definire esattamente cosa è necessario in questo momento per le strutture
sanitarie, però questo non vuol dire che il personale somalo è fermo. Tutte queste
strutture hanno il loro personale che ormai opera anche fino ai campi degli sfollati.
D.
– E ancora una volta le vittime principali sono i più deboli e indifesi?
R.
– In questi anni sono milioni le persone che hanno dovuto spostarsi da un luogo all’altro
sia all’interno della Somalia ma anche fuggendo all’esterno. Noi abbiamo attività
anche in Yemen dove adesso si è rallentato il flusso ma molti somali partivano dalla
Somalia rifugiandosi in Yemen, altri si rifugiavano in Etiopia, altri in Kenya...
E’ chiaro, le persone più deboli, che hanno meno possibilità di spostarsi inmodo più
agevole o non hanno parenti in altre aree sono quelle che pagano di più: bambini,
donne sole, donne sole con prole, anziani, sono coloro che più hanno subìto le conseguenze
di questa guerra e di questa siccità che si è aggiunta al conflitto peggiorando di
gran lunga le cose. (bf)