R. - Ritengo
che fatti come questi non costituiscano di per sé un particolare sintomo di rischio,
anche se devono essere monitorati. Credo che più che focalizzarci su queste forme
ideologizzate di violenza, dobbiamo fare attenzione ad altri tipi di tensioni che
possono sorgere in periodi di grande trasformazione e di grande difficoltà come questo,
che non necessariamente possono prendere le forme di precise ideologie appartenenti
al passato. Ci sono forme di aggregazione e di reazione ad un disagio - soprattutto
non economico - che, per ora, hanno un andamento tranquillo e quiescente. C’è, però,
sempre il rischio che qualcuna di queste reazioni possa prendere un’altra strada ed
uscir fuori.
D. - Identificare questi fenomeni, metterli sotto la casella
“neofascisti e neonazisti” è riduttivo?
R. - Potrebbe esserlo. Non credo
che rigurgiti di tipo neofascista o neonazista abbiano alcuna possibilità, però altri
pericoli potrebbero venire da altre forme di disagio o fanatismo, che potrebbero avere
volti completamente diversi da quelli del passato.
D. - Stenderebbe
questo discorso anche ai Paesi dell’Europa del nord?
R. - Questo discorso
non è specificamente italiano: riguarda quantomeno l’Europa ed anche gli Stati Uniti
d’America. La rapida trasformazione genera inevitabilmente degli stati di disagio
specifici perché viene a gravare, con un carico eccessivo, le stesse capacità che
ha la nostra mente di assorbire e di adattarsi al nuovo. (vv)