In Iraq una serie di attentati ieri nel centro di Baghdad ha provocato 70 morti e
180 feriti. Intanto il Paese attraversa una crisi politica, dopo che il premier al-Maliki,
sciita, ha chiesto alla regione autonoma del Kurdistan di consegnare alla giustizia
il vice presidente: Tareq al-Hashemi, sunnita del partito Iraqiya, è stato infatti
raggiunto da un mandato d’arresto in un’inchiesta per terrorismo. Davide Maggiore
ha chiesto ad Alessandro Colombo, docente di relazioni internazionali all’università
di Milano, se esiste il rischio che la crisi si sposti sul terreno militare:
R. - La possibilità,
naturalmente, c’è per almeno due ragioni: da un lato, perché l’equilibrio politico
e l’equilibrio istituzionale dell’Iraq è ancora fragilissimo; e dall’altro lato, la
situazione in Iraq risente inevitabilmente anche della grande instabilità di tutta
la regione, in modo particolare di due focolai di instabilità: da un lato, la lunga
interminabile crisi diplomatica e potenzialmente militare tra l’Iran ed i suoi nemici,
cioè Israele e gli Stati Uniti, e dall’altro lato l’eventualità di una caduta del
regime di Assad in Siria che cambierebbe, a sua volta, tutti gli equilibri nella regione,
anche nel rapporto tra sciiti e sunniti all’interno della regione.
D.
– Questo scenario si verifica a pochi giorni dalla cerimonia per il ritiro delle truppe
americane dal Paese. Si può leggere, tanto nelle turbolenze politiche quanto negli
attentati, una serie di tentativi fatti da diversi gruppi e con mezzi diversi, di
occupare un vuoto di potere?
R. – L’uscita degli Stati Uniti costituisce
una sorta di condizione permissiva: oggi è molto più semplice di quanto non sarebbe
stato qualche settimana o qualche mese fa. Dall’altro lato, lo scoppio dell’instabilità
– se poi di questo si tratterà anche nei prossimi mesi – in Iraq sarebbe la parola
conclusiva sul bilancio della missione americana in Iraq, che è stato – già lo possiamo
dire – un bilancio ampiamente negativo.
D. – Quali possono essere le
conseguenze sul piano internazionale?
R. – Quello che è scontato è che
la crisi in Iraq non sarà una crisi specificamente irachena. Tutti gli attori della
regione sono interessati a ciò che avviene in Iraq, e gli stessi Stati Uniti dovranno
continuare ad essere interessati, perché i contraccolpi sulla stabilità regionale
sono anche contraccolpi sul sistema di alleanze degli Stati Uniti.
D.
– Al Maliki minaccia di rimpiazzare i ministri di Iraqiya nel governo; le istituzioni
irachene – e appunto, in particolare, l’esecutivo di Al Maliki – possono reggere politicamente
a questa pressione?
R. – E’ prevedibile che nei prossimi giorni, anche
su pressione degli Stati Uniti, ci saranno dei nuovi tentativi disperati di trovare
un equilibrio, ovviamente sarà un equilibrio al ribasso. A questo punto è immaginabile
che a svolgere una funzione semi-arbitrale all’interno dell’Iraq sarà ancora una volta
la componente curda, che si trova nell’ovvio ruolo di mediatore tra le due fazioni
politiche anche più rilevanti: cioè da una parte il blocco di Al Maliki e dall’altra
il blocco di Iraqiya, che - a questo punto - è addirittura soggetto a iniziative giudiziarie
molto pesanti anche dal punto di vista politico, come l’incriminazione del vice presidente.
(gf)