Un anno fa la tragica vicenda di un venditore ambulante tunisino dava inizio alla
"primavera araba"
Esattamente un anno fa accadeva in Tunisia un fatto che gli osservatori indicano come
l’inizio della cosiddetta primavera araba: a Sidi Bouzid, un venditore ambulante -
Mohamed Bouazizi - si dava fuoco in segno di protesta per le angherie subite dalla
polizia. L’uomo morì il 4 gennaio 2011, a causa delle ustioni riportate.Il
14 gennaio, la protesta popolare, esplosa sulla scia di quella vicenda, causò la caduta
del regime di Ben Ali. A seguire, le rivolte in diversi Stati, come Egitto, Libia,
Algeria, Yemen, Siria. Un anno dopo, cosa si può dire sull’efficacia della primavera
araba? Davide Maggiore lo ha chiesto a Stefano Torelli, responsabile
dell’area Medio Oriente per il sito Equilibri.net e componente del centro italiano
sull’islam politico:
R. – Il dato
di fatto fondamentale è che le popolazioni di molti di questi Paesi si sono rese protagoniste
più che di una rivoluzione vera e propria, di una rivolta che non ha precedenti nel
mondo arabo, perché per la prima volta le popolazioni hanno fatto sentire la propria
voce e a volte hanno anche introdotto risultati concreti, contro gli stessi loro governanti;
mentre per tutti gli anni o i decenni precedenti, le proteste venivano brutalmente
represse senza che anche da parte del mondo esterno ci fosse una grande attenzione,
e poi venivano deviate contro altri bersagli – sempre esterni: l’Occidente, spesso
Israele …
D. – In alcuni Paesi, come in Siria, le masse continuano a
contrastare il potere. L’onda della primavera araba è destinata a durare o sono proteste
residuali?
R. – Il caso della Siria ci dimostra proprio che non si tratta
soltanto di proteste residuali, visto che gli scontri vanno avanti in maniera anche
più intensa, nelle ultime settimane. Direi che forse si può analizzare un’altra dinamica,
e forse può essere anche più preoccupante: cioè, il fatto che questa ondata di proteste
man mano si è propagata, trasformandosi via via anche in vere e proprie resistenze
se non in combattimenti armati.
D. – Nei Paesi in cui i vecchi regimi
sono stati deposti ora la sfida per i movimenti è costruire un’alternativa democratica
e politicamente credibile. I movimenti ne hanno la capacità e la forza?
R.
– Io parlo del caso della Tunisia e dell’Egitto. Vi sono sicuramente dei movimenti
che pian piano stanno anche maturando e possono aspirare a diventare anche le nuove
forze politiche di questi Paesi. Il problema fondamentale è che questi movimenti sono
quasi sempre stati, e sono rimasti essenzialmente, piattaforme di protesta senza però
una vera e propria organizzazione a livello politico. E nel momento in cui, poi, i
regimi sono caduti viene un po’ a mancare la presenza di questi movimenti riformatori
che hanno partecipato, invece, in maniera così diretta ed attiva al momento delle
proteste e delle rivolte. Per esempio, in Egitto tra partiti islamisti ed esercito,
assistiamo ad un ritorno – sostanzialmente – delle forze conservatrici, che non necessariamente
porteranno a fermare il processo di democratizzazione di questi Paesi, però sicuramente
sono forze che già esistevano, che già avevano una loro base e che portano avanti
istanze ben diverse dai protagonisti delle rivolte.
D. – In Occidente
sono nati movimenti come quelli degli indignados o di “Occupy Wall Street”; anche
in Russia vengono contestati in piazza i risultati delle legislative. Sono manifestazioni
indirettamente figlie del risveglio arabo o si tratta di fenomeni non paragonabili?
R.
– In qualche modo possono anche essere collegati tra di loro, come modalità di protesta.
Sinceramente, non so quanto si possa dire che tutto derivi dal movimento cosiddetto
della “Primavera araba”; in qualche modo sono collegate semplicemente nel senso che
sfruttano il momento, se non altro perché anche il ruolo dei media sicuramente aiuta
a dare più visibilità a questi movimenti. (gf)