Hillary Clinton in Myanmar, 50 anni dopo l'ultima visita di un segretario di Stato
Usa
Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, si trova oggi in Myanmar, nuova
tappa del suo tour in Asia. Si tratta di un evento storico, che proietta l’ex Birmania
nell’ambito di un lento processo di democratizzazione, stando almeno ai commenti degli
osservatori, che sperano anche in concrete aperture nel campo del riconoscimento dei
diritti umani. L’ultima visita di un segretario di Stato nel Paese asiatico risale
a 50 anni fa. La Clinton vedrà il presidente, Thein Sein, e altri funzionari. Quindi,
a Yangon, incontrerà la leader dell'opposizione, Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per
la pace 1991, rilasciata l’anno scorso, dopo 15 anni di arresti domiciliari. Sul significato
di questo incontro, Giancarlo La Vella ha intervistato Stefano Caldirola,
docente di Storia contemporanea dell’Asia all’Università di Bergamo:
R. - Indubbiamente,
la svolta che si sta verificando in Myanmar è, per certi versi, sorprendente, anche
se é stata anticipata da una serie di aperture, a partire dal rilascio di Aung San
Suu Kyi e dalla possibilità, per il suo partito, di rientrare all’interno della vita
politica birmana. E’ stato un processo sorprendente, soprattutto per gli osservatori
occidentali, che avevano mantenuto negli anni e nei mesi precedenti una linea dura
nei confronti del regime, scontrandosi anche a livello diplomatico con quelle che
erano invece le posizioni degli altri Paesi asiatici. Cina e India avevano considerato
le sanzioni e la linea dura contro il regime come controproducenti, puntando invece
a una serie di aperture interne da parte del regime militare nei confronti dell’opposizione.
D.
- Come può iniziare un processo di democratizzazione in un Paese che ha avuto un regime
quasi dittatoriale?
R. - Sicuramente, è stato un regime a lungo dittatoriale.
Innanzitutto, dobbiamo considerare che, in Asia, la visione di democrazia è un po’
diversa da quella che abbiamo in Occidente. Personalmente, ritengo che la via più
probabile sia una lenta apertura, da parte del regime, a elementi dell’opposizione
e non la realizzazione immediata di una “democrazia compiuta” nel senso occidentale
del termine.
D. - Democratizzazione vuol dire anche pacificazione. Come
sarà possibile rimettere a posto le tante conseguenze lasciate dalla dura repressione
del governo militare, prima tra tutti la lunga detenzione di Aung San Suu Kyi?
R.
- Da un punto di vista interno, dobbiamo considerare che c’è una serie di conflitti
in Birmania. Non esiste solo quello tra la giunta militare e l’opposizione, incarnata
da Aung San Suu Kyi e dai suoi seguaci. Abbiamo anche, ad esempio, la questione dei
conflitti interni tra le diverse minoranze etniche e bisognerà vedere come il regime
saprà muoversi anche su questo fronte. Una riconciliazione nazionale è senza dubbio
necessaria, con una probabile divisione della gestione del potere con elementi vicini
all’opposizione: se non con la stessa Aung San Suu Kyi, almeno con elementi a lei
vicini. Rimane invece aperto il problema della partecipazione delle diverse componenti
etniche birmane nella gestione delle risorse del Paese. (vv)