Padre Dall'Oglio, l'artefice del dialogo islamo-cristiano nel monastero di Deir Mar
Musa: la Siria vuole espellermi, io lavoro per la pace
Prosegue la violenza in Siria dove oggi le forze di sicurezza di Damasco hanno ucciso
10 persone tra le quali anche un adolescente di 14 anni: lo riferiscono gli attivisti
per i diritti umani. Intanto, potrebbe essere espulso dal Paese il monaco gesuita,
padre Paolo dall'Oglio, fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa
al-Habachi, vicino Nabak, e promotore del dialogo tra cristiani e musulmani, da mesi
impegnato negli sforzi di riconciliazione interna. L’espulsione è stata decisa dalle
autorità di Damasco, come il religioso riferisce al microfono di Linda Giannattasio,
che lo ha raggiunto telefonicamente in Siria.
R. – Si è
trattata di una fuga di notizie della quale io non sono responsabile. La notizia è
sostanzialmente esatta: c’è stata una decisione dello Stato siriano, che fa seguito
a una messa tra parentesi del mio permesso di residenza già nel marzo scorso e che
ora arriva a una conclusione poco felice. Devo dire, con benevolenza, che lo Stato
siriano ha chiesto al vescovo di operare in modo che non sia un fatto semplicemente
di polizia. Il vescovo per ora non c’è e quando tornerà se ne occuperà. Io propongo
al vescovo – e ho proposto allo Stato siriano nella figura della sua massima autorità
– di accettare un tempo di meditazione da parte mia, quindi di un maggiore impegno
spirituale e minore sul versante culturale e politico, in cambio – per così dire –
del poter rimanere in Siria. Ciò perché ho dei doveri religiosi, monastici e di presenza
con la gente del posto, che alla fine deve essere la prima e la più importante. Quindi,
spero che questa mia domanda di poter restare in Siria sia ascoltata – forse tanti
amici si stanno muovendo in questo senso – e spero sia accolta e che io non sia costretto
a lasciare il Paese, che considero il luogo del mio apostolato, la mia patria di elezione,
il luogo del mio impegno.
D. – Qual è il suo impegno nel Paese dal punto
di vista religioso, dal punto di vista politico, e qual è, quindi, il suo sentimento
in questo momento?
R. – Io sono qui da 30 anni, ho lavorato al dialogo
islamo-cristiano, ho lavorato per creare una comunità monastica consacrata al servizio
dell’armonia islamo-cristiana, che poi è una priorità mondiale. Siamo una ventina
di persone – fratelli e sorelle – di diversi Paesi: tutti studiano l’arabo, tutti
studiano il cristianesimo orientale e anche la religione musulmana e si dedicano all’ospitalità.
Durante quest’ultima, dolorosissima crisi, ci siamo impegnati per la libertà d’opinione,
per la libertà di coscienza, per la libertà d’espressione e sono tanti anni che cerchiamo
di operare, di cooperare per un accesso graduale alla democrazia matura, di far fronte
all’emergenza della società civile, a un dialogo che garantisca l’unità nazionale,
la protezione delle differenze, la valorizzazione delle specificità, senza una democrazia
di un primato di un gruppo sugli altri, ma in una dinamica di creazione, di costruzione
continua e dinamica del consenso nazionale. Questo richiede degli strumenti. Io ho
scritto un articolo sulla democrazia consensuale, che ha avuto un certo impatto locale
e internazionale. Adesso c’è un nostro appello per Natale in diverse lingue sulla
riconciliazione, che si può trovare su Internet. Noi crediamo, crederemo fino all’ultimo,
e anche dopo l’ultimo, nella riconciliazione, nel dialogo, nel negoziato, per evitare
al massimo la sofferenza della gente e costruire un futuro che non sia quello dell’odio
e della vendetta.
D. – Qual è la situazione in questo momento nel Paese?
R.
– Di dialogo insufficiente. Questo irrigidimento va verso una tragedia. Comunque,
chiunque vinca, sarebbe una tragedia. Non vogliamo che vinca nessuno: vogliamo che
vinca l’armonia.(ap)