Myanmar: appello per la liberazione dei prigionieri politici e per la fine degli abusi
sulle minoranze
Ad un anno dalla liberazione della premio Nobel per la pace e leader dell’opposizione
birmana Aung San Suu Kyi, rilasciata il 13 novembre 2010, il Myanmar si appresta a
liberare un nuovo gruppo di prigionieri politici. La scarcerazione, prevista per oggi,
è stata però rinviata. Il 12 ottobre scorso le autorità avevano annunciato un’amnistia
generale per il rilascio di 6.300 persone e avevano iniziato le liberazioni. Osservatori
internazionali, nell’occasione, fecero notare che la decisione birmana era da collegare
al tentativo di alleviare le sanzioni economico-commerciali di Europa e Stati Uniti
e di ottenere nel 2014 la presidenza dell’Associazione dei Paesi del Sud-est asiatico
(ASEAN). In questo clima si inseriscono gli appelli di alcune organizzazioni per la
difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International, che denuncia come - nel carcere
di Insein, vicino Yangon - quindici prigionieri politici stiano portando avanti uno
sciopero della fame e subendo torture e maltrattamenti. Ce ne parla Riccardo Noury,
portavoce della sezione italiana di Amnesty International, intervistato da Giada
Aquilino:
R. - Sono
in sciopero della fame - per alcuni non è la prima volta - perché contestano il fatto
che non sia stata ridotta loro la pena a seguito delle recenti decisioni della giunta
militare di alleviare i tempi di detenzione o scarcerare addirittura molti prigionieri.
In altri casi, si tratta di detenuti al secondo sciopero della fame: in quello precedente
protestavano contro le condizioni di prigionia che sono assolutamente inaccettabili,
secondo qualunque standard riguardante le detenzioni.
D. - Come vengono
trattati?
R. - All’inizio è stata negata loro l’acqua, ponendoli quindi
al rischio di morire per disidratazione e poi - come punizione supplementare - alcuni
di loro sono stati messi nei cosiddetti canili, cioè celle di dimensioni di tre metri
per due, che non hanno aria, sono insonorizzate, non hanno neanche letti o tappeti,
mancano di strutture igieniche. Sono punizioni supplementari perché i prigionieri
già dipendono abitualmente dalle famiglie per poter avere cibo e medicine, quindi
sono completamente lasciati a se stessi.
D. – E’ prevista una ulteriore
liberazione di prigionieri politici: che segnale è da parte delle autorità birmane?
R.
– Dobbiamo intanto vedere chi saranno questi prigionieri. In totale, al momento, dovrebbero
essere circa duemila, all’inizio dell’anno lo erano sicuramente. Se consideriamo i
trecento liberati fino ad oggi più i duecento annunciati, potremmo arrivare a un totale
di cinquecento detenuti messi in libertà. Ma bisogna appunto vedere la lista chi comprenda
e bisogna poi ottenere garanzie che una volta in libertà non verranno perseguitati
ulteriormente: che, quindi, possano godere in pieno della libertà di svolgere attività
legittime, anche di critica nei confronti del governo se vorranno farlo.
D.
- Quando a ottobre venne annunciata l’amnistia, la stampa internazionale disse che
quello delle autorità del Myanmar era un tentativo di alleviare le sanzioni e ottenere
poi la presidenza dell’Asean nel 2014…
R. - Che il governo militare
stia cercando di darsi maggiore credibilità è un fatto naturale, consideriamo anche
la fine degli arresti domiciliari per la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi
esattamente un anno fa. Sono però misure che se da un lato possono soddisfare le richieste
di alcuni Paesi - penso in particolare ai Paesi del Sud-est asiatico - dall’altro
è impossibile che attenuino le critiche della comunità internazionale. Noi abbiamo
oggi ancora una situazione in cui in questo Paese, al di là delle detenzioni politiche,
sono compiuti crimini contro l’umanità nei confronti delle minoranze etniche, ci sono
casi di tortura, ci sono situazioni gravissime come quella dei prigionieri in sciopero
della fame. Quindi non bisogna accontentarsi assolutamente.
D. - A proposito
di minoranze: vi risulta che sia stato preso in considerazione il capitolo dei Kachin?
E’ degli ultimi giorni la notizia di una donna violentata da soldati birmani al confine
con la Cina…
R. - Che il governo continui ad avere un atteggiamento
di offensiva militare nei confronti dei Kachin e di altri gruppi, nonostante con alcuni
di questi sia giunto a qualche tipo di armistizio, è indubbio. Però tutto il tema
della repressione nei confronti delle minoranze etniche è fortemente sottovalutato
dalla comunità internazionale, che ha scelto un tema - da un lato più visibile e dall’altro
più facile, come quello di pretendere la liberazione dei prigionieri di coscienza
- che è una cosa importante per le persone che vengono liberate, ma non rappresenta
qualcosa per cui fermare le proprie richieste.
D. - Qual è dunque l’appello
di Amnesty International?
R. - L’appello è al governo della Birmania
di liberare tutti i prigionieri di coscienza, di porre fine a decenni di crimini contro
l’umanità che sono commessi contro le minoranze. Naturalmente è un appello che direttamente
riguarda le autorità del Paese, ma indirettamente coinvolge il principale partner
politico che è la Cina e deve coinvolgere anche i Paesi della regione, i Paesi dell’Asean.
Occorre che il mondo non giri gli occhi dall’altra parte, magari distratto da altre
situazioni - penso a crisi che sono in atto - perché è di questo che la giunta militare
al potere ha beneficiato in questi anni, facendo scempio di qualunque norma relativa
ai diritti umani.(bf)