La crisi attuale sembra evidenziare come siano i mercati finanziari a dettare i ritmi
e i tempi della politica. Ascoltiamo in proposito la riflessione del prof. Stefano
Zamagni, presidente dell'Agenzia per il terzo settore e docente di economia politica
all’Università di Bologna, al microfono di Luca Collodi: R.
– E’ vero. Bisogna però capirne le ragioni e le radici. Il punto è che con l’avvento
della globalizzazione, circa 30 anni fa, la politica scelse di abdicare al suo ruolo
di scienza del buon governo. Quindi è stata la politica ad aprire le porte a quelli
che oggi noi chiamiamo "i mercati finanziari", " mercati del lavoro globale" e così
via. Ed è iniziata da quella stagione, da quella fase storica la cosiddetta "deregulation":
dapprima sui movimenti delle merci e tutti dissero: "Bene, che bello! Così c’è un
maggiore abbattimento dei prezzi, i consumatori saranno più contenti", e poi si è
arrivati alla deregolamentazione delle attività che riguardavano la finanza. Ora,
in una prima fase – direi fino alla fine degli anni ’80, inizio anni ’90 – questo
ha avuto effetti positivi perché come tutti sanno – anche chi non ha studiato economia
– abbattere le barriere, abbattere le posizioni di rendita e di privilegio ha un impatto
positivo sui prezzi, sui costi eccetera. Non si è tenuto conto, però, del fatto che
il meccanismo di mercato, una volta avviato, non si arresta più ed è quello che adesso
noi vediamo. Cioè a dire: oggi la capacità di agire dei mercati finanziari è tale
che la politica non può far a meno di accettare l’agenda che viene fissata da essi.
Questo, quindi, è un problema serio, più di quanto non si creda. Perché? Perché siamo
di fronte ad un grave deficit di democrazia, perché siamo in presenza di una forma
di oligarchia tecnocratica che, a prescindere da obiettivi di per sé importanti, come
l’aumento dell’efficienza, non assicura gli spazi di libertà che una autentica democrazia
deve garantire. D. - La possibile soluzione che si sta delineando per quanto
riguarda l’Italia, secondo lei, è quindi richiesta dalla finanza internazionale, più
che dalla politica italiana … R. – Ma questo è evidente! Questo lo sanno
tutti. Però, bisogna aggiungere: non ci sono alternative. E non ci sono alternative
perché il rischio sarebbe quello di affossare definitivamente i destini del Paese.
Allora, un governo di transizione, come quello che si va a prefigurare, deve soddisfare
due condizioni. Primo, deve essere a termine, quindi dev’essere chiaro che non deve
andare oltre i 18 mesi, un anno e mezzo. Secondo, che è un governo a cui si chiede
di cambiare la legge elettorale perché quando fra 18 mesi si andrà a votare non potremo
ripetere quell’errore che è stato fatto a suo tempo con il cosiddetto "porcellum",
che ha ulteriormente peggiorato la situazione rispetto all’obiettivo della politica
come scienza del buon governo. D. – In questa soluzione temporanea, il
ruolo dei laici cattolici quale può essere o quale dovrebbe essere? R. –
I laici cattolici avrebbero dovuto incominciare a battere un pugno sul tavolo almeno
un anno, un anno e mezzo fa: probabilmente, oggi non ci troveremmo in questa situazione.
Perché? Perché è ovvio che se c’è un pensiero che il movimento cattolico, nelle sue
varie articolazioni, ha sempre coltivato è quello – appunto – della politica come
scienza del buon governo. Cioè a dire, l’obiettivo della politica è il bene comune.
Negli ultimi tempi, io non ho mai sentito – se non in questi ultimissimi mesi – parlare,
addirittura usare, il lessico del "bene comune". Ora, i cattolici in questi ultimi
tempi, in Italia, sono stati un po’ troppo alla finestra: hanno curato e hanno fatto
benissimo – non bene: benissimo! – la sfera culturale, e poi la sfera del sociale,
dove hanno fatto super-bene – pensiamo alle Caritas e al contributo delle varie associazioni
di volontariato e associazioni di promozione sociale. Dove, invece, sono arretrati
è sotto il profilo della politica, ma soprattutto c’è stato un modo di ritrarsi dall’attività
politica con una sorta di demonizzazione. Ora stiamo pagando le conseguenze di questa
ingenuità. D. – Ci dobbiamo rassegnare a questo? R. – No, no!
Assolutamente no! L’incontro di Todi di poche settimane fa, a mio modo di vedere,
ha rappresentato un vero e proprio punto di svolta. La presa d’atto che i cattolici,
se vogliono testimoniare la loro coerenza con i principi, devono imboccare una via
che, peraltro, in passato era stata imboccata in tempi più difficili. Forse, adesso,
un governo di transizione cosiddetto "tecnico" può servire alla bisogna, può concedere
a questo movimento cattolico che si è svegliato un pochino in ritardo, il tempo necessario
per aggregarsi, ma soprattutto per passare da un manifesto delle intenzioni ad un
vero e proprio programma di azione, che comprenda i vari capitoli, tra cui quello
economico, sicuramente; ma c’è il capitolo del lavoro, c’è il capitolo della famiglia,
c’è il capitolo – soprattutto – del nuovo modello di democrazia che dobbiamo realizzare,
e cioè la democrazia "deliberativa", perché quella che abbiamo ricevuto dal recente
passato non va più bene: è quel modello che gli anglosassoni chiamano "the private
politics", cioè la politica privata. Quella non è politica. E’ un modo camuffato di
parlare e di praticare l’affarismo. (gf)