2011-11-12 09:54:43

Crisi italiana. Il commento del prof. Zamagni


La crisi attuale sembra evidenziare come siano i mercati finanziari a dettare i ritmi e i tempi della politica. Ascoltiamo in proposito la riflessione del prof. Stefano Zamagni, presidente dell'Agenzia per il terzo settore e docente di economia politica all’Università di Bologna, al microfono di Luca Collodi: RealAudioMP3
R. – E’ vero. Bisogna però capirne le ragioni e le radici. Il punto è che con l’avvento della globalizzazione, circa 30 anni fa, la politica scelse di abdicare al suo ruolo di scienza del buon governo. Quindi è stata la politica ad aprire le porte a quelli che oggi noi chiamiamo "i mercati finanziari", " mercati del lavoro globale" e così via. Ed è iniziata da quella stagione, da quella fase storica la cosiddetta "deregulation": dapprima sui movimenti delle merci e tutti dissero: "Bene, che bello! Così c’è un maggiore abbattimento dei prezzi, i consumatori saranno più contenti", e poi si è arrivati alla deregolamentazione delle attività che riguardavano la finanza. Ora, in una prima fase – direi fino alla fine degli anni ’80, inizio anni ’90 – questo ha avuto effetti positivi perché come tutti sanno – anche chi non ha studiato economia – abbattere le barriere, abbattere le posizioni di rendita e di privilegio ha un impatto positivo sui prezzi, sui costi eccetera. Non si è tenuto conto, però, del fatto che il meccanismo di mercato, una volta avviato, non si arresta più ed è quello che adesso noi vediamo. Cioè a dire: oggi la capacità di agire dei mercati finanziari è tale che la politica non può far a meno di accettare l’agenda che viene fissata da essi. Questo, quindi, è un problema serio, più di quanto non si creda. Perché? Perché siamo di fronte ad un grave deficit di democrazia, perché siamo in presenza di una forma di oligarchia tecnocratica che, a prescindere da obiettivi di per sé importanti, come l’aumento dell’efficienza, non assicura gli spazi di libertà che una autentica democrazia deve garantire.
D. - La possibile soluzione che si sta delineando per quanto riguarda l’Italia, secondo lei, è quindi richiesta dalla finanza internazionale, più che dalla politica italiana …
R. – Ma questo è evidente! Questo lo sanno tutti. Però, bisogna aggiungere: non ci sono alternative. E non ci sono alternative perché il rischio sarebbe quello di affossare definitivamente i destini del Paese. Allora, un governo di transizione, come quello che si va a prefigurare, deve soddisfare due condizioni. Primo, deve essere a termine, quindi dev’essere chiaro che non deve andare oltre i 18 mesi, un anno e mezzo. Secondo, che è un governo a cui si chiede di cambiare la legge elettorale perché quando fra 18 mesi si andrà a votare non potremo ripetere quell’errore che è stato fatto a suo tempo con il cosiddetto "porcellum", che ha ulteriormente peggiorato la situazione rispetto all’obiettivo della politica come scienza del buon governo.
D. – In questa soluzione temporanea, il ruolo dei laici cattolici quale può essere o quale dovrebbe essere?
R. – I laici cattolici avrebbero dovuto incominciare a battere un pugno sul tavolo almeno un anno, un anno e mezzo fa: probabilmente, oggi non ci troveremmo in questa situazione. Perché? Perché è ovvio che se c’è un pensiero che il movimento cattolico, nelle sue varie articolazioni, ha sempre coltivato è quello – appunto – della politica come scienza del buon governo. Cioè a dire, l’obiettivo della politica è il bene comune. Negli ultimi tempi, io non ho mai sentito – se non in questi ultimissimi mesi – parlare, addirittura usare, il lessico del "bene comune". Ora, i cattolici in questi ultimi tempi, in Italia, sono stati un po’ troppo alla finestra: hanno curato e hanno fatto benissimo – non bene: benissimo! – la sfera culturale, e poi la sfera del sociale, dove hanno fatto super-bene – pensiamo alle Caritas e al contributo delle varie associazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale. Dove, invece, sono arretrati è sotto il profilo della politica, ma soprattutto c’è stato un modo di ritrarsi dall’attività politica con una sorta di demonizzazione. Ora stiamo pagando le conseguenze di questa ingenuità.
D. – Ci dobbiamo rassegnare a questo?
R. – No, no! Assolutamente no! L’incontro di Todi di poche settimane fa, a mio modo di vedere, ha rappresentato un vero e proprio punto di svolta. La presa d’atto che i cattolici, se vogliono testimoniare la loro coerenza con i principi, devono imboccare una via che, peraltro, in passato era stata imboccata in tempi più difficili. Forse, adesso, un governo di transizione cosiddetto "tecnico" può servire alla bisogna, può concedere a questo movimento cattolico che si è svegliato un pochino in ritardo, il tempo necessario per aggregarsi, ma soprattutto per passare da un manifesto delle intenzioni ad un vero e proprio programma di azione, che comprenda i vari capitoli, tra cui quello economico, sicuramente; ma c’è il capitolo del lavoro, c’è il capitolo della famiglia, c’è il capitolo – soprattutto – del nuovo modello di democrazia che dobbiamo realizzare, e cioè la democrazia "deliberativa", perché quella che abbiamo ricevuto dal recente passato non va più bene: è quel modello che gli anglosassoni chiamano "the private politics", cioè la politica privata. Quella non è politica. E’ un modo camuffato di parlare e di praticare l’affarismo. (gf)








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