Il Senato approva la Legge di Stabilità in attesa del nuovo governo. La
Lega propone Lamberto Dini
Giornata politica intensa in Italia con l’approvazione del ddl stabilità da parte
del Senato e il dibattito tra maggioranza e opposizione in vista di un governo tecnico
sotto la guida del senatore a vita Mario Monti. Nel pomeriggio vertice a Palazzo Grazioli
tra Berlusconi, il leader della Lega Bossi e il ministro Calderoli. Il Carroccio ribadisce
di voler proseguire con la maggioranza del 14 dicembre 2010 puntando su un esecutivo
guidato da Lamberto Dini. Il voto sarebbe la rovina per l’Italia: questo il monito
del presidente di Confindustria Marcegaglia, mentre il capo dello Stato continua a
premere per un’azione condivisa. Sentiamo Cecilia Seppia
La
crisi attuale sembra evidenziare come siano i mercati finanziari a dettare i ritmi
e i tempi della politica. Ascoltiamo in proposito la riflessione del prof. Stefano
Zamagni, presidente dell'Agenzia per il terzo settore e docente di economia politica
all’Università di Bologna, al microfono di Luca Collodi: R.
– E’ vero. Bisogna però capirne le ragioni e le radici. Il punto è che con l’avvento
della globalizzazione, circa 30 anni fa, la politica scelse di abdicare al suo ruolo
di scienza del buon governo. Quindi è stata la politica ad aprire le porte a quelli
che oggi noi chiamiamo "i mercati finanziari", " mercati del lavoro globale" e così
via. Ed è iniziata da quella stagione, da quella fase storica la cosiddetta "deregulation":
dapprima sui movimenti delle merci e tutti dissero: "Bene, che bello! Così c’è un
maggiore abbattimento dei prezzi, i consumatori saranno più contenti", e poi si è
arrivati alla deregolamentazione delle attività che riguardavano la finanza. Ora,
in una prima fase – direi fino alla fine degli anni ’80, inizio anni ’90 – questo
ha avuto effetti positivi perché come tutti sanno – anche chi non ha studiato economia
– abbattere le barriere, abbattere le posizioni di rendita e di privilegio ha un impatto
positivo sui prezzi, sui costi eccetera. Non si è tenuto conto, però, del fatto che
il meccanismo di mercato, una volta avviato, non si arresta più ed è quello che adesso
noi vediamo. Cioè a dire: oggi la capacità di agire dei mercati finanziari è tale
che la politica non può far a meno di accettare l’agenda che viene fissata da essi.
Questo, quindi, è un problema serio, più di quanto non si creda. Perché? Perché siamo
di fronte ad un grave deficit di democrazia, perché siamo in presenza di una forma
di oligarchia tecnocratica che, a prescindere da obiettivi di per sé importanti, come
l’aumento dell’efficienza, non assicura gli spazi di libertà che una autentica democrazia
deve garantire. D. - La possibile soluzione che si sta delineando per quanto
riguarda l’Italia, secondo lei, è quindi richiesta dalla finanza internazionale, più
che dalla politica italiana … R. – Ma questo è evidente! Questo lo sanno
tutti. Però, bisogna aggiungere: non ci sono alternative. E non ci sono alternative
perché il rischio sarebbe quello di affossare definitivamente i destini del Paese.
Allora, un governo di transizione, come quello che si va a prefigurare, deve soddisfare
due condizioni. Primo, deve essere a termine, quindi dev’essere chiaro che non deve
andare oltre i 18 mesi, un anno e mezzo. Secondo, che è un governo a cui si chiede
di cambiare la legge elettorale perché quando fra 18 mesi si andrà a votare non potremo
ripetere quell’errore che è stato fatto a suo tempo con il cosiddetto "porcellum",
che ha ulteriormente peggiorato la situazione rispetto all’obiettivo della politica
come scienza del buon governo. D. – In questa soluzione temporanea, il
ruolo dei laici cattolici quale può essere o quale dovrebbe essere? R. –
I laici cattolici avrebbero dovuto incominciare a battere un pugno sul tavolo almeno
un anno, un anno e mezzo fa: probabilmente, oggi non ci troveremmo in questa situazione.
Perché? Perché è ovvio che se c’è un pensiero che il movimento cattolico, nelle sue
varie articolazioni, ha sempre coltivato è quello – appunto – della politica come
scienza del buon governo. Cioè a dire, l’obiettivo della politica è il bene comune.
Negli ultimi tempi, io non ho mai sentito – se non in questi ultimissimi mesi – parlare,
addirittura usare, il lessico del "bene comune". Ora, i cattolici in questi ultimi
tempi, in Italia, sono stati un po’ troppo alla finestra: hanno curato e hanno fatto
benissimo – non bene: benissimo! – la sfera culturale, e poi la sfera del sociale,
dove hanno fatto super-bene – pensiamo alle Caritas e al contributo delle varie associazioni
di volontariato e associazioni di promozione sociale. Dove, invece, sono arretrati
è sotto il profilo della politica, ma soprattutto c’è stato un modo di ritrarsi dall’attività
politica con una sorta di demonizzazione. Ora stiamo pagando le conseguenze di questa
ingenuità. D. – Ci dobbiamo rassegnare a questo? R. – No, no!
Assolutamente no! L’incontro di Todi di poche settimane fa, a mio modo di vedere,
ha rappresentato un vero e proprio punto di svolta. La presa d’atto che i cattolici,
se vogliono testimoniare la loro coerenza con i principi, devono imboccare una via
che, peraltro, in passato era stata imboccata in tempi più difficili. Forse, adesso,
un governo di transizione cosiddetto "tecnico" può servire alla bisogna, può concedere
a questo movimento cattolico che si è svegliato un pochino in ritardo, il tempo necessario
per aggregarsi, ma soprattutto per passare da un manifesto delle intenzioni ad un
vero e proprio programma di azione, che comprenda i vari capitoli, tra cui quello
economico, sicuramente; ma c’è il capitolo del lavoro, c’è il capitolo della famiglia,
c’è il capitolo – soprattutto – del nuovo modello di democrazia che dobbiamo realizzare,
e cioè la democrazia "deliberativa", perché quella che abbiamo ricevuto dal recente
passato non va più bene: è quel modello che gli anglosassoni chiamano "the private
politics", cioè la politica privata. Quella non è politica. E’ un modo camuffato di
parlare e di praticare l’affarismo. (gf)
Sul fronte politico tra le novità
emerse oggi la richiesta del Pdl che il governo sia puramente tecnico. Alessandro
Guarasci ha sentito l’opinione del politologo Agostino Giovagnoli
R. - Tutti
i governi sono politici nella misura in cui hanno ovviamente la fiducia delle Camere.
Al di là della questione formale, c’è una questione si sostanza: i problemi che l’Italia
deve affrontare sono tali da richiedere un forte consenso politico; mentre invece
l’ambiguità di un governo definito tecnico è proprio l’ambiguità di un governo rispetto
a quelle parti politiche che prendono a priori una distanza. D.
Lega e Italia dei Valori ormai in sostanza sembrano gli unici due partiti all’apposizione?
R.
- Esistono momenti straordinari ed eccezionali come questo in cui è importante che
tutte le forze fondamentali di un sistema siano coinvolte. In questo senso restare
fuori, in un’ipotesi di questo genere, è un errore: si porranno, per esempio, le premesse
del rapporto tra l’Italia e l’Europa nei prossimi mesi e anche nei prossimi anni,
e allora è importante sapere chi sono i soci fondatori di questa linea che certamente
andrà al di là della dialettica abituale tra maggioranza e opposizione.
D.
- Non andare ad elezioni subito darà più forza nel 2013 a Berlusconi?
R.
- Potrebbe ricavare un vantaggio. In quel senso è apprezzabile che i suoi avversari
non accolgano questa occasione elettoralmente favorevole, ma facciano un ragionamento
più serio, più profondo e di lungo periodo. (mg)