Giornata contro l'ictus: ogni sei secondi nel mondo una persona è colpita da questa
patologia
Si celebra oggi la Giornata mondiale contro l’ictus: ogni sei secondi, nel mondo,
una persona viene colpita da ictus e, in Italia, ogni anno si registrano duecentomila
nuovi casi. Grazie alla prevenzione i decessi diminuiscono, ma sono tendenzialmente
in aumento le persone che, a causa del danno cerebrale, rimangono invalide e non autosufficienti.
Ma cos’è l'ictus e quale ruolo hanno la prevenzione e la riabilitazione? Eliana
Astorri ha intervistato il prof. Vincenzo Di Lazzaro, associato di neurologia
e responsabile dell’Unità Operativa “Stroke Unit” del Policlinico Universitario Agostino
Gemelli di Roma:
R. – L’ictus
è un termine generico che indica l’interruzione del flusso di sangue ad una parte
del cervello, che può essere causata sia da un trombo che chiude il vaso – e questa
è l’ischemia, ed è il caso molto più frequente – oppure dalla rottura di un vaso cerebrale,
e questa è l’emorragia cerebrale, che è meno frequente. Quello che accade in conseguenza
di questo fenomeno è che una parte del cervello si spegne, perde la sua funzione e
compaiono i sintomi neurologici. Può esserci l’improvvisa perdita di forza di un braccio
o di una gamba o di entrambi, la difficoltà a parlare o a capire quello che gli altri
dicono, la deviazione della bocca, una improvvisa riduzione del campo visivo. L’ipertensione
è una delle più importanti cause di predisposizione alla ischemia cerebrale, come
anche all’emorragia cerebrale, il diabete, l’ipercolesterolemia, il fumo e anche abitudini
di vita sbagliate, cioè una vita estremamente sedentaria o un eccessivo consumo di
alcolici, sono tutti fattori predisponenti.
D. – Se si tratta di ictus
di lieve gravità, possiamo anche non rendercene conto?
R. – Bè, molto
spesso si tende a sottovalutare l’ictus. Il problema dell’ictus, a differenza dell’infarto
del cuore, è che non dà dolore. Quindi, se uno magari per un attimo sente che un braccio
è più pesante e questo fenomeno dura qualche minuto, si tende a sottovalutarlo. Invece
dovrebbe essere preso in seria considerazione, perché quello è il cosiddetto “attacco
ischemico transitorio” che molto spesso è il campanello d’allarme che precede un ictus.
E allora, se ci si reca in un centro specializzato per la diagnosi e per la cura dell’ictus,
si possono fare tutte quelle indagini che consentono di salvare il paziente da un
deficit neurologico permanente e anche di salvargli la vita, perché – ad esempio –
è possibile rilevare una grave ostruzione di uno dei vasi che porta il sangue al cervello,
oppure una condizione di aritmia, tutte condizioni che possono essere corrette e trattate,
e può essere fatta la prevenzione. Ma è vero: molto spesso si tende a sottovalutare
soprattutto questi disturbi cosiddetti “transitori”.
D. – Quale percorso
fa una persona colpita da ictus, dal momento in ci arriva al pronto soccorso in poi?
R.
– Il percorso dipende un po’ dalla struttura, perché esistono degli ospedali, dei
policlinici con centri dedicati alla patologia cerebrovascolare, in cui c’è un percorso
elettivo. Quindi, innanzitutto, la valutazione clinica, gli esami di base, la tac
e se poi il paziente ha un’ischemia cerebrale ed è arrivato presto al pronto soccorso,
è possibile anche effettuare dei cambiamenti che modificano in maniera radicale l’evoluzione:
cioè, è possibile disostruire il vaso sanguigno, il che vuol dire che possiamo portare
il paziente anche ad un recupero totale dei suoi disturbi. Ma il problema non è tanto
quello intraospedaliero: il problema è quello che accade prima dell’ospedale. Già
prima facevamo riferimento a questo: è il ritardo con cui avviene che è legato in
parte al fatto che lo stesso paziente può non avere consapevolezza della gravità del
disturbo. Soprattutto se è colpita una parte del cervello – la parte destra del cervello
– può non avere nessuna consapevolezza del suo disturbo. La percezione della gravità
può sfuggire completamente se prende la parte destra: non si ha proprio idea della
gravità e si tende ad attribuire a fenomeni intercorrenti un evento così grave. Dicevo,
la mancanza di dolore non allarma e quindi molto spesso il paziente non chiede un
aiuto nell’immediato, oppure si reca nello studio del medico di famiglia il che vuol
dire un enorme ritardo: ma qui il tempo è critico! E’ veramente l’elemento centrale.
E’ possibile salvare un paziente dalle conseguenze definitive di un ictus o anche
salvargli la vita se il paziente giunge nelle primissime ore dopo un ictus, quando
è possibile effettuare il trattamento di “trombolisi”. E purtroppo, la percentuale
di pazienti che oggi trattiamo è molto minore rispetto all’incidenza di questa patologia.
E’ veramente frustrante: è una patologia per la quale disponiamo di cure molto efficaci
ma che sono ampiamente sottoutilizzate. Il fattore critico è proprio il ritardo nell’arrivo
in un pronto soccorso.
D. – Ci può parlare della riabilitazione?
R.
– Devo dire che forse questo è uno degli elementi più importanti e di maggiore novità
in assoluto. Nell’ambito della riabilitazione abbiamo molti progressi, perché stiamo
andando oltre un approccio – come lo era in passato – di tipo empirico: si cercava
di far migliorare il paziente, ma non avendo un’idea esatta di quello che si andava
ad indurre nel cervello, oggi – con la possibilità di fare una valutazione funzionale
del cervello con tecniche come la risonanza magnetica, ma anche con tecniche di stimolazione
cerebrale, siamo in grado di vedere quali siano i cambiamenti che avvengono nel cervello
dopo un ictus e nel corso della riabilitazione, e quindi siamo in grado di guidare
il cervello verso una forma di “plasticità”, cioè una condizione che permette poi
il recupero funzionale. Un paziente può riprendere a camminare dopo un ictus, ma può
assumere una postura completamente sbagliata. La riabilitazione aiuta a reimpostare
correttamente la postura. E questo è particolarmente importante per l’arto superiore,
perché quello che accade comunemente è che il paziente tende a fare tutto con l’arto
sano, il che porta ad un’ulteriore perdita di funzione dell’arto leso. Quindi, anche
quella quota residua di funzionalità dell’arto leso si perde completamente e così
si impara a non utilizzare l’arto. Esistono, ad esempio, approcci in cui si arriva
a bloccare per alcune ore del giorno l’arto sano in modo da spingere il soggetto ad
utilizzare al massimo l’arto più debole e questo nel tempo ha effetti permanenti,
in termini di recupero funzionale. (gf)