I vescovi del'Angola in visita "ad Limina" in Vaticano. Mons. Mbilingi: la pacificazione
interna passa per l'opera della Chiesa
Una Paese che deve fare i conti con le tante ferite che il suo passato di conflitti
e guerre fratricide ha lasciato nei cuori di tutti: si tratta dell’Angola, i cui vescovi
sono in Vaticano per la visita ad Limina. Al microfono di Lisa Zengarini,
il presidente della Conferenza episcopale angolana, l’arcivescovo di Lubango, mons.
Gabriel Mbilingi, spiega anzitutto che ruolo abbia svolto la Chiesa nel processo
di riconciliazione nazionale:
R. –L’Angola ha vissuto 30 anni di grande sofferenza e divisione tra le varie etnie
e popoli. La Chiesa ha sempre parlato della riconciliazione, attraverso i messaggi
della Conferenza episcopale. Dopo l’indipendenza, la guerra civile è continuata, ma
il partito al potere era quello marxista, leninista, e quindi ateo. Ha perciò intrapreso
un’educazione di un certo tipo contro la Chiesa e la religione. Alcuni sacerdoti vennero
uccisi, altri vennero imprigionati. Durante la guerra qualche suora è morta e dei
seminaristi furono rapiti. Nel 2002, il Paese ha finalmente raggiunto questo periodo
di pace. Da una parte, la Chiesa ha continuato la sua testimonianza, cercando di unire
la famiglia angolana e dall’altra lo stesso governo, dopo aver raggiunto la pace,
ha riconosciuto il ruolo determinante avuto dalla Chiesa per il raggiungimento della
pace stessa.
D. – Il prossimo anno ci sarà il Sinodo sulla nuova evangelizzazione.
L’Angola, oggi, è un Paese che ha bisogno di essere rievangelizzato?
R.
– Si tratta di un Paese che esce da una situazione di guerra fratricida che si protrae
da molti anni. C’è un’intera generazione che non ha avuto accesso all’insegnamento
della Chiesa, ai valori e al Vangelo. In questo momento, il nostro Paese necessita
di una profonda rievangelizzazione. I giovani di oggi sono molto influenzati dalla
globalizzazione e da una certa secolarizzazione, inoltre si trovano anche in mezzo
a molte sette religiose. Chi è al potere, in questo momento, appoggia l’islam, nella
speranza che possa "combattere", assieme alle sette, l’azione della Chiesa che rappresenta
una solida realtà in Angola. L’azione della Chiesa cattolica in particolare, ma anche
del cristianesimo in generale. Il Sinodo, per noi, sarà quindi un’occasione per poter
riflettere insieme sull’attuale contesto in cui siamo chiamati ad evangelizzare il
nostro Paese.
D. – Quali sono, oggi, i rapporti ecumenici ed interreligiosi
in Angola?
R. – Con l’islam non siamo ancora riusciti ad avere dei rapporti,
perché in questo momento non hanno dei capi con cui possiamo parlare. Quello che adesso
notiamo è un certo progresso dell’islam, che porrà comunque delle sfide per lo svolgimento
della missione della Chiesa.
D. – Per quanto riguarda il rapporto tra
clero e laici, nella Chiesa angolana, cosa può dirci?
R. – Direi che
il rapporto è veramente buono, perché in Africa - e in particolare in Angola – se
non ci fossero stati i catechisti non avremmo mai potuto evangelizzare. Il ruolo dei
laici, da parte della Conferenza episcopale, è stato riconosciuto. C’è un vescovo
responsabile proprio dell’apostolato dei laici, con una speciale attenzione a dirigenti,
imprenditori, medici e professori, per far sì che i laici siano, in questo senso,
il fermento della società. (vv)