Testo integrale della nota del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace
Pubblichiamo il testo integrale della nota del Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace intitolata "Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale
nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale":
Prefazione
« La situazione attuale del mondo esige un’azione d’insieme sulla base di
una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali.
Esperta in umanità, la Chiesa, lungi dal pretendere minimamente d’intromettersi nella
politica degli Stati, “non ha di mira che un unico scopo: continuare, sotto l’impulso
dello Spirito consolatore, la stessa opera del Cristo, venuto nel mondo per rendere
testimonianza alla verità, per salvare, non per condannare, per servire, non per essere
servito” ». Con queste parole, Paolo VI, nella profetica e sempre attuale Enciclica
Populorum progressio del 1967, tracciava in maniera limpida « le traiettorie » dell’intima
relazione della Chiesa con il mondo: traiettorie che si intersecano nel valore profondo
della dignità dell’uomo e nella ricerca del bene comune, e che pure rendono i popoli
responsabili e liberi di agire secondo le proprie più alte aspirazioni. La crisi
economica e finanziaria che sta attraversando il mondo chiama tutti, persone e popoli,
ad un profondo discernimento dei principi e dei valori culturali e morali che sono
alla base della convivenza sociale. Ma non solo. La crisi impegna gli operatori privati
e le autorità pubbliche competenti a livello nazionale, regionale e internazionale
ad una seria riflessione sulle cause e sulle soluzioni di natura politica, economica
e tecnica. In tale prospettiva, la crisi, insegna Benedetto XVI, « ci obbliga
a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di
impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi
diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave,
fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento
presente ». Gli stessi leader del G20, nello Statement adottato a Pittsburgh nel
2009, hanno affermato come « The economic crisis demonstrates the importance of ushering
in a new era of sustainable global economic activity grounded in responsibility ».
Raccogliendo l’appello del Santo Padre e, al tempo stesso, facendo proprie le
preoccupazioni dei popoli – soprattutto di quelli che maggiormente soffrono il prezzo
della situazione attuale – il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, nel
rispetto delle competenze delle autorità civili e politiche, intende proporre e condividere
la propria riflessione « Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale
nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale ». Tale riflessione
vuole essere un contributo ai responsabili della terra e a tutti gli uomini di buona
volontà; un gesto di responsabilità non solo nei confronti delle generazioni presenti,
ma soprattutto di quelle future; affinché non sia mai perduta la speranza di un futuro
migliore e la fiducia nella dignità e nella capacità di bene della persona umana.
Ogni singola persona, ogni comunità di persone, è partecipe e responsabile
della promozione del bene comune. Fedeli alla loro vocazione di natura etica e religiosa,
le comunità di credenti devono per prime interrogarsi sull’adeguatezza dei mezzi di
cui la famiglia umana dispone in vista della realizzazione del bene comune mondiale.
La Chiesa, per parte sua, è chiamata a stimolare in tutti indistintamente « la volontà
di partecipare a quell’ingente sforzo con il quale, nel corso dei secoli, [gli uomini]
cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, corrisponde[ndo così] alle intenzioni
di Dio ».
1. Sviluppo economico e disuguaglianze
La grave crisi
economica e finanziaria, che il mondo oggi attraversa, trova la sua origine in molteplici
cause. Sulla pluralità e sul peso di queste cause persistono opinioni diverse: alcuni
sottolineano anzitutto gli errori insiti nelle politiche economiche e finanziarie;
altri insistono sulle debolezze strutturali delle istituzioni politiche, economiche
e finanziarie; altri ancora le attribuiscono a cedimenti di natura etica intervenuti
a tutti i livelli, nel quadro di un’economia mondiale sempre più dominata dall’utilitarismo
e dal materialismo. Nei diversi stadi di sviluppo della crisi, si riscontra sempre
una combinazione di errori tecnici e di responsabilità morali. Nel caso di scambio
di beni materiali e di servizi, sono la natura e la capacità produttiva, il lavoro
in tutte le sue molteplici forme, che pongono un limite alle quantità determinando
un insieme di costi e di prezzi che permette, sotto certe condizioni, un’allocazione
efficiente delle risorse disponibili. Ma in materia monetaria e finanziaria le
dinamiche sono diverse. Negli ultimi decenni sono state le banche ad estendere il
credito, il quale ha generato moneta, che a sua volta ha sollecitato un’ulteriore
espansione del credito. Il sistema economico è stato in tale maniera spinto verso
una spirale inflazionistica che inevitabilmente ha trovato un limite nel rischio sostenibile
per gli istituti di credito, sottoposti ad un pericolo ulteriore di fallimento, con
conseguenze negative per l’intero sistema economico e finanziario. Dopo la Seconda
Guerra Mondiale, le economie nazionali sono avanzate, sebbene con enormi sacrifici
per milioni, anzi per miliardi di persone che avevano dato fiducia, con il loro comportamento
di produttori e imprenditori da un lato, di risparmiatori e consumatori dall’altro,
a un progressivo regolare sviluppo della moneta e della finanza in linea con le potenzialità
di crescita reale dell’economia. Dagli anni Novanta dello scorso secolo, si riscontra
invece come la moneta e i titoli di credito a livello globale siano aumentati in misura
molto più rapida della produzione del reddito, anche a prezzi correnti. Ne sono derivate
la formazione di sacche eccessive di liquidità e di bolle speculative che poi si sono
trasformate in una serie di crisi di solvibilità e di fiducia che si sono propagate
e susseguite nel corso degli anni. Una prima crisi si è verificata negli anni
Settanta fino ai primi anni Ottanta, ed era relativa ai prezzi del petrolio. In seguito
si sono avute una serie di crisi in vari Paesi in via di sviluppo. Si pensi alla prima
crisi del Messico negli anni Ottanta, oppure a quelle del Brasile, della Russia e
della Corea, quindi di nuovo del Messico negli anni Novanta, della Tailandia, dell’Argentina.
La bolla speculativa sugli immobili e la recente crisi finanziaria hanno la medesima
origine nell’eccessivo ammontare di moneta e di strumenti finanziari a livello globale. Mentre
le crisi nei Paesi in via di sviluppo, che hanno rischiato di coinvolgere il sistema
monetario e finanziario globale, sono state contenute con forme di intervento da parte
dei Paesi più sviluppati, la crisi scoppiata nel 2008 è stata caratterizzata da un
fattore decisivo e dirompente rispetto a quelle precedenti. Essa è stata generata
nel contesto degli Stati Uniti, una delle aree più rilevanti per l’economia e la finanza
mondiale, coinvolgendo la moneta a cui fa tuttora capo la stragrande maggioranza
degli scambi internazionali. Un orientamento di stampo liberista – reticente rispetto
ad interventi pubblici nei mercati – ha fatto propendere per il fallimento di un importante
istituto finanziario internazionale, immaginando in tal modo di delimitare la crisi
e i suoi effetti. Ne è derivata purtroppo una propagazione di sfiducia che ha spinto
a mutare repentinamente atteggiamento, sollecitando interventi pubblici sotto varie
forme, di enorme portata (oltre il 20% del prodotto nazionale) al fine di tamponare
gli effetti negativi che avrebbero travolto tutto il sistema finanziario internazionale.
Le conseguenze sulla cosiddetta « economia reale », passando attraverso le gravi
difficoltà di alcuni settori – in primo luogo dell’edilizia – e attraverso il diffondersi
di aspettative sfavorevoli, hanno generato una tendenza negativa della produzione
e del commercio internazionale, con gravi riflessi sull’occupazione, e con effetti
che ancora non hanno probabilmente esaurito tutta la loro portata. I costi per milioni,
anzi miliardi di persone, nei Paesi sviluppati ma anche soprattutto in quelli in via
di sviluppo, sono rilevanti. In Paesi ed aree dove mancano ancora i beni più elementari
della salute, del cibo, del riparo dalle intemperie, oltre un miliardo di persone
sono costrette a sopravvivere con un reddito medio di poco più di un dollaro al giorno.
Il benessere economico globale, misurato in primo luogo dalla produzione del reddito
ed anche dalla diffusione delle capabilities, si è accresciuto, nel corso della seconda
metà del XX secolo, in una misura e con una rapidità mai sperimentate nella storia
del genere umano. Ma sono anche aumentate enormemente le disuguaglianze all’interno
dei vari Paesi e tra di essi. Mentre alcuni Paesi e aree economiche, quelle più industrializzate
e sviluppate, hanno visto crescere notevolmente la produzione del reddito, altri Paesi
sono stati di fatto esclusi dal miglioramento generalizzato dell’economia, e persino
hanno peggiorato la loro situazione. I pericoli di una situazione di sviluppo
economico, concepito in termini liberistici, sono stati lucidamente e profeticamente
denunciati da Paolo VI – per le conseguenze nefaste sugli equilibri mondiali e sulla
pace – già nel 1967, dopo il Concilio Vaticano II, con l’Enciclica Populorum progressio.
Il Pontefice indicò come condizioni imprescindibili, per la promozione di un autentico
sviluppo, la difesa della vita e la promozione della crescita culturale e morale delle
persone. Su tali basi, affermava Paolo VI lo sviluppo plenario e planetario « è il
nuovo nome della pace ». A quaranta anni di distanza, nel 2007, il Fondo Monetario
Internazionale riconobbe, nel suo Rapporto annuale, la stretta connessione tra un
processo di globalizzazione non adeguatamente governato da un lato, e le forti disuguaglianze
a livello mondiale dall’altro. Oggi i moderni mezzi di comunicazione rendono evidenti
a tutti i popoli, ricchi e poveri, le disuguaglianze economiche, sociali e culturali
che si sono determinate a livello globale generando tensioni e imponenti movimenti
migratori. Tuttavia, va ribadito che il processo di globalizzazione con i suoi
aspetti positivi è alla base del grande sviluppo dell’economia mondiale del XX secolo.
Vale la pena di ricordare che tra il 1900 e il 2000 la popolazione mondiale si è quasi
quadruplicata e che la ricchezza prodotta a livello mondiale è cresciuta in misura
molto più rapida cosicché il reddito medio pro capite è fortemente aumentato. Allo
stesso tempo, però, non è aumentata l’equa distribuzione della ricchezza, piuttosto,
in molti casi essa è peggiorata. Ma cosa ha spinto il mondo in questa direzione
estremamente problematica anche per la pace? Anzitutto un liberismo economico senza
regole e senza controlli. Si tratta di una ideologia, di una forma di « apriorismo
economico », che pretende di prendere dalla teoria le leggi di funzionamento del mercato
e le cosiddette leggi dello sviluppo capitalistico esasperandone alcuni aspetti. Un’ideologia
economica che stabilisca a priori le leggi del funzionamento del mercato e dello sviluppo
economico, senza confrontarsi con la realtà, rischia di diventare uno strumento subordinato
agli interessi dei Paesi che godono di fatto di una posizione di vantaggio economico
e finanziario. Regole e controlli, sia pure in maniera imperfetta, sono spesso
presenti a livello nazionale e regionale; tuttavia, a livello internazionale tali
regole e controlli fanno fatica a realizzarsi e a consolidarsi. Alla base delle
disparità e delle distorsioni dello sviluppo capitalistico c’è, in gran parte, oltre
all’ideologia del liberismo economico, l’ideologia utilitarista, ossia quella impostazione
teorico-pratica per cui: « l’utile personale conduce al bene della comunità ». È da
notare che una simile « massima » contiene un’anima di verità, ma non si può ignorare
che non sempre l’utile individuale, sebbene legittimo, favorisce il bene comune. In
più di un caso è richiesto uno spirito di solidarietà che trascenda l’utile personale
per il bene della comunità. Negli anni venti del secolo scorso alcuni economisti
avevano già messo in guardia dal dare eccessivamente credito, in assenza di regole
e controlli, a quelle teorie oggi divenute ideologie e prassi dominanti a livello
internazionale. Un effetto devastante di queste ideologie, soprattutto negli ultimi
decenni del secolo scorso e i primi anni del nuovo secolo, è stato lo scoppio della
crisi nella quale il mondo si trova tuttora immerso. Benedetto XVI, nella sua
enciclica sociale, ha individuato in maniera precisa la radice di una crisi che non
è solamente di natura economica e finanziaria, ma prima di tutto di natura morale,
oltre che ideologica. L’economia, infatti, – osserva il Pontefice – ha bisogno dell’etica
per il suo corretto funzionamento, non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica
della persona. Egli, poi, ha denunciato il ruolo svolto dall’utilitarismo e dall’individualismo,
nonché le responsabilità di chi li ha assunti e diffusi come parametro per il comportamento
ottimale di coloro – operatori economici e politici – che agiscono e interagiscono
nel contesto sociale. Ma Benedetto XVI ha anche individuato e denunciato una nuova
ideologia, l’ ideologia della tecnocrazia.
2. Il ruolo della tecnica e la
sfida etica
Il grande sviluppo economico e sociale dello scorso secolo,
certamente con le sue luci ma anche con i suoi gravi coni d’ombra, è dovuto anche
al continuato sviluppo della tecnica e, nei decenni più recenti, ai progressi dell’informatica
e alle sue applicazioni, all’economia e in primo luogo alla finanza. Per interpretare
con lucidità l’attuale nuova questione sociale, occorre senz’altro, però, evitare
l’errore, figlio anch’esso dell’ideologia neoliberista, di ritenere che i problemi
da affrontare siano di ordine esclusivamente tecnico. Come tali, essi sfuggirebbero
alla necessità di un discernimento e di una valutazione di tipo etico. Ebbene, l’enciclica
di Benedetto XVI mette in guardia contro i pericoli dell’ideologia della tecnocrazia,
ossia di quell’assolutizzazione della tecnica che « tende a produrre un’incapacità
di percepire ciò che non si spiega con la semplice materia » ed a minimizzare il
valore delle scelte dell’individuo umano concreto che opera nel sistema economico-finanziario,
riducendole a mere variabili tecniche. La chiusura ad un « oltre », inteso come un
di più rispetto alla tecnica, non solo rende impossibile trovare soluzioni adeguate
per i problemi, ma impoverisce sempre più, sul piano materiale e morale, le principali
vittime della crisi. Anche nel contesto della complessità dei fenomeni la rilevanza
dei fattori etici e culturali non può, dunque, essere trascurata o sottostimata. La
crisi, di fatto, ha rivelato comportamenti di egoismo, di cupidigia collettiva e di
accaparramento di beni su grande scala. Nessuno può rassegnarsi a vedere l’uomo vivere
come « un lupo per l’altro uomo », secondo la concezione evidenziata da Hobbes. Nessuno,
in coscienza, può accettare lo sviluppo di alcuni Paesi a scapito di altri. Se non
si pone un rimedio alle varie forme di ingiustizia gli effetti negativi che ne deriveranno
sul piano sociale, politico ed economico saranno destinati a generare un clima di
crescente ostilità e perfino di violenza, sino a minare le stesse basi delle istituzioni
democratiche, anche di quelle ritenute più solide. Dal riconoscimento del primato
dell’essere rispetto a quello dell’avere, dell’etica rispetto a quello dell’economia,
i popoli della terra dovrebbero assumere, come anima della loro azione, un’etica della
solidarietà, abbandonando ogni forma di gretto egoismo, abbracciando la logica del
bene comune mondiale che trascende il mero interesse contingente e particolare. Dovrebbero,
in definitiva, avere vivo il senso di appartenenza alla famiglia umana in nome della
comune dignità di tutti gli esseri umani: « prima ancora della logica dello scambio
degli equivalenti e delle forme di giustizia, […] che le sono proprie, esiste un qualcosa
che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità ». Già
nel 1991, dopo il fallimento del collettivismo marxista, il Beato Giovanni Paolo II
aveva messo in guardia nei confronti del rischio di « un’idolatria del mercato, che
ignora l’esistenza di beni che, per loro natura, non sono né possono essere semplici
merci ». Oggi occorre senz’indugio accogliere il suo ammonimento e imboccare una
strada più in sintonia con la dignità e con la vocazione trascendente della persona
e della famiglia umana.
3. Il governo della globalizzazione
Nel
cammino verso la costruzione di una famiglia umana più fraterna e giusta e, prima
ancora, di un nuovo umanesimo aperto alla trascendenza, appare inoltre particolarmente
attuale l’insegnamento del Beato Giovanni XXIII. Nella profetica Lettera enciclica
Pacem in terris del 1963, egli avvertiva che il mondo si stava avviando verso una
sempre maggiore unificazione. Prendeva quindi atto del fatto che, nella comunità umana,
era venuta meno la rispondenza fra l’organizzazione politica « su piano mondiale e
le esigenze obiettive del bene comune universale ». Per conseguenza auspicava la
creazione, un giorno, di « un’Autorità pubblica mondiale ». A fronte dell’unificazione
del mondo, propiziata dal complesso fenomeno della globalizzazione; a fronte dell’importanza
di garantire, oltre agli altri beni collettivi, quello rappresentato da un sistema
economico-finanziario mondiale libero, stabile e a servizio dell’economia reale, oggi
l’insegnamento della Pacem in terris appare ancor più vitale e degno di urgente concretizzazione.
Lo stesso Benedetto XVI, nel solco tracciato dalla Pacem in terris, ha espresso
la necessità di costituire un’Autorità politica mondiale. Tale necessità appare del
resto evidente, se si pensa al fatto che l’agenda delle questioni da trattare a livello
globale diventa costantemente più ampia. Si pensi, ad esempio, alla pace e alla sicurezza;
al disarmo e al controllo degli armamenti; alla promozione e alla tutela dei diritti
fondamentali dell’uomo; al governo dell’economia e alle politiche di sviluppo; alla
gestione dei flussi migratori e alla sicurezza alimentare; alla tutela dell’ambiente.
In tutti questi ambiti risulta sempre più evidente la crescente interdipendenza tra
Stati e regioni del mondo e la necessità di risposte, non solo settoriali e isolate,
ma sistematiche e integrate, ispirate dalla solidarietà e dalla sussidiarietà e orientate
al bene comune universale. Come ricorda Benedetto XVI, se non si persegue questa
strada anche « il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei
vari campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i più
forti ». Lo scopo dell’Autorità pubblica, rammentava già Giovanni XXIII nella
Pacem in terris, è anzitutto quello di servire il bene comune. Essa, pertanto, deve
dotarsi di strutture e meccanismi adeguati, efficaci, ossia all’altezza della propria
missione e delle aspettative che in essa sono riposte. Questo è particolarmente vero
all’interno di un mondo globalizzato, che rende persone e popoli sempre più interconnessi
ed interdipendenti, ma che mostra anche il peso dell’egoismo e degli interessi settoriali,
tra cui l’esistenza di mercati monetari e finanziari a carattere prevalentemente speculativo,
dannosi per l’economia reale, specie dei Paesi più deboli. È un processo complesso
e delicato. Tale Autorità sovranazionale deve, infatti, avere un’impostazione realistica
ed essere messa in atto con gradualità, con l’obiettivo di favorire anche l’esistenza
di sistemi monetari e finanziari efficienti ed efficaci, ossia mercati liberi e stabili,
disciplinati da un adeguato quadro giuridico, funzionali allo sviluppo sostenibile
e al progresso sociale di tutti, ispirati ai valori della carità nella verità. Si
tratta di un’Autorità dall’orizzonte planetario, che non può essere imposta con la
forza, ma dovrebbe essere espressione di un accordo libero e condiviso, oltre che
delle esigenze permanenti e storiche del bene comune mondiale e non frutto di coercizione
o di violenze. Essa dovrebbe sorgere da un processo di maturazione progressiva delle
coscienze e delle libertà, nonché dalla consapevolezza di crescenti responsabilità.
Non possono, per conseguenza, essere tralasciati come superflui elementi quali la
fiducia reciproca, l’autonomia e la partecipazione. Il consenso deve coinvolgere un
sempre maggior numero di Paesi che aderiscono in maniera convinta, mediante quel dialogo
sincero che non emargina, bensì valorizza le opinioni minoritarie. L’Autorità mondiale
dovrebbe, dunque, coinvolgere coerentemente tutti i popoli, in una collaborazione
in cui essi sono chiamati a contribuire con il patrimonio delle loro virtù e delle
loro civiltà. La costituzione di un Autorità politica mondiale dovrebbe essere
preceduta da una fase preliminare di concertazione, dalla quale emergerà una istituzione
legittimata, in grado di offrire una guida efficace e, al tempo stesso, di permettere
a ciascun Paese di esprimere e di perseguire il proprio bene particolare. L’esercizio
di una simile Autorità, posta al servizio del bene di tutti e di ciascuno, sarà necessariamente
super partes, ossia al di sopra di ogni visione parziale e di ogni bene particolare,
in vista della realizzazione del bene comune. Le sue decisioni non dovranno essere
il risultato del pre-potere dei Paesi più sviluppati sui Paesi più deboli. Dovranno,
invece, essere assunte nell’interesse di tutti, non solo a vantaggio di alcuni gruppi,
siano essi formati da lobby private o da Governi nazionali. Un’Istituzione sopranazionale,
espressione di una « comunità delle Nazioni », non potrà peraltro durare a lungo,
se le diversità dei Paesi, sul piano delle culture, delle risorse materiali ed immateriali,
delle condizioni storiche e geografiche non sono riconosciute e pienamente rispettate.
L’assenza di un consenso convinto, alimentato da un’incessante comunione morale della
comunità mondiale, indebolirebbe l’efficacia della corrispettiva Autorità. Ciò
che vale a livello nazionale vale anche a livello mondiale. La persona non è fatta
per servire incondizionatamente l’Autorità, il cui compito è quello di porsi al servizio
della persona stessa, in coerenza con il valore preminente della dignità dell’uomo.
Parimenti, i Governi non devono servire incondizionatamente l’Autorità mondiale. È
piuttosto quest’ultima che deve mettersi al servizio dei vari Paesi membri, secondo
il principio di sussidiarietà, creando, tra l’altro, quelle condizioni socio-economiche,
politiche e giuridiche, indispensabili anche all’esistenza di mercati efficienti ed
efficaci, perché non iperprotetti da politiche nazionali paternalistiche, perché non
indeboliti da deficit sistematici delle finanze pubbliche e dei Prodotti nazionali,
che di fatto impediscono ai mercati stessi di operare in un contesto mondiale come
istituzioni aperte e concorrenziali. Nella tradizione del Magistero della Chiesa,
ripresa con vigore da Benedetto XVI, il principio di sussidiarietà deve regolare
le relazioni tra Stato e comunità locali, tra Istituzioni pubbliche e Istituzioni
private, non escluse quelle monetarie e finanziarie. Così, su un ulteriore livello,
deve reggere le relazioni tra una eventuale futura Autorità pubblica mondiale e le
istituzioni regionali e nazionali. Un tale principio è a garanzia sia della legittimità
democratica sia dell’efficacia delle decisioni di coloro che sono chiamati a prenderle.
Permette di rispettare la libertà delle persone e delle comunità di persone e, al
tempo stesso, di responsabilizzarle rispetto agli obiettivi e ai doveri che loro competono.
Secondo la logica della sussidiarietà, l’Autorità superiore offre il suo subsidium,
ovvero il suo aiuto, quando la persona e gli attori sociali e finanziari sono intrinsecamente
inadeguati o non riescono a fare da sé quanto è loro richiesto. Grazie al principio
di solidarietà, si costruisce un rapporto durevole e fecondo tra la società civile
planetaria e un’Autorità pubblica mondiale, quando gli Stati, i corpi intermedi, le
varie istituzioni – comprese quelle economiche e finanziarie – e i cittadini prendono
le loro decisioni entro la prospettiva del bene comune mondiale, che trascende quello
nazionale. « Il governo della globalizzazione » – si legge nella Caritas in
veritate – « deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani
diversi, che collaborino reciprocamente ». Solo così si può evitare il pericolo dell’isolamento
burocratico dell’Autorità centrale, che rischierebbe di essere delegittimata da un
distacco troppo grande dalle realtà sulle quali si fonda, e potrebbe facilmente cadere
in tentazioni paternalistiche, tecnocratiche, o egemoniche. Un lungo cammino resta
però ancora da percorrere prima di arrivare alla costituzione di una tale Autorità
pubblica a competenza universale. Logica vorrebbe che il processo di riforma si sviluppasse
avendo come punto di riferimento l’Organizzazione delle Nazioni Unite, in ragione
dell’ampiezza mondiale delle sue responsabilità, della sua capacità di riunire le
Nazioni della terra e della diversità dei suoi compiti e di quelli delle sue Agenzie
specializzate. Il frutto di tali riforme dovrebbe essere una maggiore capacità di
adozione di politiche e scelte vincolanti poiché orientate alla realizzazione del
bene comune a livello locale, regionale e mondiale. Tra le politiche appaiono più
urgenti quelle relative alla giustizia sociale globale: politiche finanziarie e monetarie
che non danneggino i Paesi più deboli; politiche volte alla realizzazione di mercati
liberi e stabili e ad un’equa distribuzione della ricchezza mondiale mediante anche
forme inedite di solidarietà fiscale globale, di cui si dirà più avanti. Nel cammino
della costituzione di un’Autorità politica mondiale non si possono disgiungere le
questioni della governance (ossia di un sistema di semplice coordinamento orizzontale
senza un’Autorità super partes) da quelle di un shared government (ossia di un sistema
che, oltre al coordinamento orizzontale, stabilisca un’Autorità super partes) funzionale
e proporzionato al graduale sviluppo di una società politica mondiale. La costituzione
di un’Autorità politica mondiale non può essere raggiunta senza la previa pratica
del multilateralismo, non solo a livello diplomatico, ma anche e soprattutto nell’ambito
dei piani per lo sviluppo sostenibile e per la pace. A un Governo mondiale non si
può pervenire se non dando espressione politica a preesistenti interdipendenze e cooperazioni.
4. Verso
una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale rispondente alle esigenze
di tutti i Popoli
In materia economica e finanziaria, le difficoltà più
rilevanti derivano dalla carenza di un insieme efficace di strutture, in grado di
garantire, oltre ad un sistema di governance, un sistema di government dell’economia
e della finanza internazionale. Che dire di questa prospettiva? Quali passi muovere
in concreto? Con riferimento all’attuale sistema economico e finanziario mondiale
vanno sottolineati due fattori determinanti: il primo è il graduale venire meno dell’efficienza
delle istituzioni di Bretton Woods, a partire dai primi anni Settanta. In particolare,
il Fondo Monetario Internazionale ha perso un carattere essenziale per la stabilità
della finanza mondiale, quello di regolare la creazione complessiva di moneta e di
vegliare sull’ammontare di rischio di credito assunto dal sistema. In definitiva non
si dispone più di quel « bene pubblico universale » che è la stabilità del sistema
monetario mondiale. Il secondo fattore è la necessità di un corpus minimo condiviso
di regole necessarie alla gestione del mercato finanziario globale, cresciuto molto
più rapidamente dell’economia reale, essendosi velocemente sviluppato per effetto,
da un lato, dell’abrogazione generalizzata dei controlli sui movimenti di capitali
e dalla tendenza alla deregolamentazione delle attività bancarie e finanziarie; e
dall’altro, dei progressi della tecnica finanziaria favoriti dagli strumenti informatici. Sul
piano strutturale, nell’ultima parte del secolo scorso, la moneta e le attività finanziarie
a livello globale sono cresciute molto più rapidamente della produzioni di beni e
di servizi. In tale contesto, la qualità del credito ha teso a diminuire sino ad esporre
gli istituti di credito ad un rischio maggiore di quello ragionevolmente sostenibile.
Basti guardare alle sorti di grandi e piccoli istituti di credito nel contesto delle
crisi che si sono manifestate negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e infine
nella crisi del 2008. Sempre nell’ultima parte del XX scorso, si è sviluppata
la tendenza a definire gli orientamenti strategici della politica economica e finanziaria
all’interno di club e di gruppi più o meno estesi di Paesi più sviluppati. Pur non
negando gli aspetti positivi di questo approccio, non si può non notare che esso non
sembra rispettare pienamente il principio rappresentativo, in particolare dei Paesi
meno sviluppati o emergenti. La necessità di tener conto della voce di un maggiore
numero di Paesi ha, ad esempio, indotto l’allargamento dei suddetti gruppi, passando
così dal G7 al G20. Questa è stata un’evoluzione positiva, in quanto ha consentito
di coinvolgere, negli orientamenti all’economia e alla finanza globale, la responsabilità
di Paesi con più elevata popolazione, in via di sviluppo ed emergenti. Nell’ambito
del G20 possono pertanto maturare indirizzi concreti che, opportunamente elaborati
nelle appropriate sedi tecniche, potranno orientare gli organi competenti a livello
nazionale e regionale al consolidamento delle istituzioni esistenti e alla creazione
di nuove istituzioni con appropriati ed efficaci strumenti a livello internazionale.
Gli stessi leader del G20, nella Dichiarazione finale di Pittsburgh del 2009,
affermano del resto come « la crisi economica dimostra l’importanza di avviare una
nuova era dell’economia globale fondata sulla responsabilità ». Per fare fronte alla
crisi e aprire una nuova era « della responsabilità », oltre alle misure di tipo tecnico
e di breve periodo, i leader avanzano la proposta di una « riforma dell’architettura
globale per fare fronte alle esigenze del 21° secolo »; e quindi quella di « un quadro
che consenta di definire le politiche e le misure comuni per generare uno sviluppo
globale solido, sostenibile e bilanciato ». Occorre quindi avviare un processo
di profonda riflessione e di riforme, percorrendo vie creative e realistiche, tendenti
a valorizzare gli aspetti positivi delle istituzioni e dei fora già esistenti. Un’attenzione
specifica andrebbe riservata alla riforma del sistema monetario internazionale e,
in particolare, all’impegno per dar vita a qualche forma di controllo monetario globale,
peraltro già implicita negli Statuti del Fondo Monetario Internazionale. È chiaro
che, in qualche misura, questo equivale a mettere in discussione i sistemi dei cambi
esistenti, per trovare modi efficaci di coordinamento e supervisione. È un processo
che deve coinvolgere anche i Paesi emergenti e in via di sviluppo nel definire le
tappe di un adattamento graduale degli strumenti esistenti. Sullo sfondo si delinea,
in prospettiva, l’esigenza di un organismo che svolga le funzioni di una sorta di
« Banca centrale mondiale » che regoli il flusso e il sistema degli scambi monetari,
alla stregua delle Banche centrali nazionali. Occorre riscoprire la logica di fondo,
di pace, coordinamento e prosperità comune, che portarono agli Accordi di Bretton
Woods, per fornire adeguate risposte alle questioni attuali. A livello regionale tale
processo potrebbe essere praticato con la valorizzazione delle istituzioni esistenti,
come ad esempio la Banca Centrale Europea. Ciò richiederebbe, tuttavia, non solo una
riflessione sul piano economico e finanziario, ma anche e prima di tutto, sul piano
politico, in vista della costituzione di istituzioni pubbliche corrispettive che garantiscano
l’unità e la coerenza delle decisioni comuni. Queste misure dovrebbero essere
concepite come alcuni dei primi passi nella prospettiva di una Autorità pubblica a
competenza universale; come una prima tappa di un più lungo sforzo della comunità
mondiale di orientare le sue istituzioni alla realizzazione del bene comune. Altre
tappe dovranno seguire, tenendo conto che le dinamiche che conosciamo possono accentuarsi,
ma anche accompagnarsi a cambiamenti che oggi sarebbe vano tentare di prevedere. In
tale processo, occorre, recuperare il primato dello spirituale e dell’etica e, con
essi, il primato della politica – responsabile del bene comune – sull’economia e la
finanza. Occorre ricondurre queste ultime entro i confini della loro reale vocazione
e della loro funzione, compresa quella sociale, in considerazione delle loro evidenti
responsabilità nei confronti della società, per dare vita a mercati ed istituzioni
finanziarie che siano effettivamente a servizio della persona, che siano capaci, cioè,
di rispondere alle esigenze del bene comune e della fratellanza universale, trascendendo
ogni forma di piatto economicismo e di mercantilismo performativo. Sulla base
di un tale approccio di tipo etico, appare, quindi, opportuno riflettere, ad esempio:
su misure di tassazione delle transazioni finanziarie, mediante aliquote eque,
ma modulate con oneri proporzionati alla complessità delle operazioni, soprattutto
di quelle che si effettuano nel mercato « secondario ». Una tale tassazione sarebbe
molto utile per promuovere lo sviluppo globale e sostenibile secondo principi di giustizia
sociale e della solidarietà; e potrebbe contribuire alla costituzione di una riserva
mondiale, per sostenere le economie dei Paesi colpiti dalle crisi, nonché il risanamento
del loro sistema monetario e finanziario; su forme di ricapitalizzazione delle
banche anche con fondi pubblici condizionando il sostegno a comportamenti « virtuosi
» e finalizzati a sviluppare l’economia reale; sulla definizione dell’ambito dell’attività
di credito ordinario e di Investment Banking. Tale distinzione consentirebbe una disciplina
più efficace dei « mercati-ombra » privi di controlli e di limiti. Un sano realismo
richiederebbe il tempo necessario per costruire consensi ampi, ma l’orizzonte del
bene comune universale è sempre presente con le sue esigenze ineludibili. È pertanto
auspicabile che tutti coloro che, nelle Università e nei vari Istituti, sono chiamati
a formare le classi dirigenti di domani si dedichino a prepararle alle loro responsabilità
di discernere e di servire il bene pubblico globale in un mondo in costante cambiamento.
È necessario colmare il divario presente tra formazione etica e preparazione tecnica,
evidenziando in particolar modo l’ineludibile sinergia tra i due piani della praxis
e della poièsis. Lo stesso sforzo è richiesto a tutti coloro che sono in grado
di illuminare l’opinione pubblica mondiale, per aiutarla ad affrontare questo mondo
nuovo non più nell’angoscia ma nella speranza e nella solidarietà.
Conclusioni
Nelle
incertezze attuali, in una società capace di mobilitare mezzi ingenti, ma la cui riflessione
sul piano culturale e morale rimane inadeguata rispetto al loro utilizzo in ordine
al conseguimento di fini appropriati, siamo invitati a non arrenderci e a costruire
soprattutto un futuro di senso per le generazioni a venire. Non bisogna temere di
proporre cose nuove, anche se possono destabilizzare equilibri di forze preesistenti
che dominano sui più deboli. Esse sono un seme gettato nella terra, che germoglierà
e non tarderà a portare i suoi frutti. Come ha esortato Benedetto XVI, sono indispensabili
persone ed operatori a tutti i livelli – sociale, politico, economico, professionale
–, mossi dal coraggio di servire e promuovere il bene comune mediante una vita buona.
Solo loro riusciranno a vivere e a vedere oltre le apparenze delle cose, percependo
il divario tra il reale esistente ed il possibile mai sperimentato. Paolo VI ha
sottolineato la forza rivoluzionaria dell’« immaginazione prospettica », capace di
percepire nel presente le possibilità in esso inscritte, e di orientare gli uomini
verso un futuro nuovo. Liberando l’immaginazione, l’uomo libera la sua esistenza.
Mediante un impegno di immaginazione comunitaria è possibile trasformare non solo
le istituzioni ma anche gli stili di vita, e suscitare un avvenire migliore per tutti
i popoli. Gli Stati moderni, nel tempo, sono divenuti insiemi strutturati, concentrando
la sovranità all’interno del proprio territorio. Ma le condizioni sociali, culturali
e politiche sono progressivamente mutate. È cresciuta la loro interdipendenza – sicché
è divenuto naturale pensare ad una comunità internazionale integrata e retta sempre
più da un ordinamento condiviso –, ma non è venuta meno una forma deteriore di nazionalismo,
secondo cui lo Stato ritiene di poter conseguire in maniera autarchica il bene dei
suoi cittadini. Oggi tutto ciò appare surreale e anacronistico. Oggi tutte le nazioni,
piccole o grandi, assieme ai loro Governi, sono chiamate a superare quello « stato
di natura » che vede gli Stati in perenne lotta tra loro. Nonostante alcuni suoi aspetti
negativi, la globalizzazione sta unificando maggiormente i popoli, sollecitandoli
a muoversi verso un nuovo « stato di diritto » a livello sopranazionale, sostenuto
da una collaborazione più intensa e feconda. Con una dinamica analoga a quella che
in passato ha messo fine alla lotta « anarchica » tra clan e regni rivali, in ordine
alla costituzione di Stati nazionali, l’umanità deve oggi impegnarsi nella transizione
da una situazione di lotte arcaiche tra entità nazionali, a un nuovo modello di società
internazionale più coesa, poliarchica, rispettosa delle identità di ciascun popolo,
entro la molteplice ricchezza di un’unica umanità. Un tale passaggio, peraltro già
timidamente in corso, assicurerebbe ai cittadini di tutti i Paesi – qualunque ne sia
la dimensione o la forza – pace e sicurezza, sviluppo, mercati liberi, stabili e trasparenti.
« Come all’interno dei singoli Stati […] il sistema della vendetta privata e della
rappresaglia è stato sostituito dall’impero della legge » – avverte Giovanni Paolo
II – « così è ora urgente che un simile progresso abbia luogo nella Comunità internazionale
». I tempi per concepire istituzioni con competenza universale arrivano quando
sono in gioco beni vitali e condivisi dall’intera famiglia umana, che i singoli Stati
non sono in grado di promuovere e proteggere da soli. Esistono, quindi, le condizioni
per il definitivo superamento di un ordine internazionale « westphaliano », nel quale
gli Stati sentono l’esigenza della cooperazione, ma non colgono l’opportunità di un’integrazione
delle rispettive sovranità per il bene comune dei popoli. È compito delle generazioni
presenti riconoscere e accettare consapevolmente questa nuova dinamica mondiale verso
la realizzazione di un bene comune universale. Certo, questa trasformazione si farà
al prezzo di un trasferimento graduale ed equilibrato di una parte delle attribuzioni
nazionali ad un’Autorità mondiale e alle Autorità regionali, ma questo è necessario
in un momento in cui il dinamismo della società umana e dell’economia e il progresso
della tecnologia trascendono le frontiere, che nel mondo globalizzato sono di fatto
già erose. La concezione di una nuova società, la costruzione di nuove istituzioni
dalla vocazione e competenza universali, sono una prerogativa e un dovere per tutti,
senza distinzione alcuna. È in gioco il bene comune dell’umanità e il futuro stesso.
In tale contesto, per ogni cristiano c’è una speciale chiamata dello Spirito
ad impegnarsi con decisione e generosità, perché le molteplici dinamiche in atto si
volgano verso prospettive di fraternità e di bene comune. Si aprono immensi cantieri
di lavoro per lo sviluppo integrale dei popoli e di ogni persona. Come affermano i
Padri del Concilio Vaticano II, si tratta di una missione al tempo stesso sociale
e spirituale, che, « nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana
società, è di grande importanza per il regno di Dio ». In un mondo in via di rapida
globalizzazione, il riferimento ad un’Autorità mondiale diviene l’unico orizzonte
compatibile con le nuove realtà del nostro tempo e con i bisogni della specie umana.
Non va, però, dimenticato che questo passaggio, data la natura ferita degli uomini,
non avviene senza angosce e senza sofferenze. La Bibbia, con il racconto della
Torre di Babele (Genesi 11,1-9) avverte come la « diversità » dei popoli possa trasformarsi
in veicolo di egoismo e strumento di divisione. Nell’umanità è ben presente il rischio
che i popoli finiscano per non capirsi più e che le diversità culturali siano motivo
di contrapposizioni insanabili. L’immagine della Torre di Babele ci avverte anche
che bisogna guardarsi da una « unità » solo di facciata, nella quale non cessano egoismi
e divisioni, poiché non sono stabili le fondamenta della società. In entrambi i casi,
Babele è l’immagine di ciò che i popoli e gli individui possono divenire, quando non
riconoscono la loro intrinseca dignità trascendente e la loro fraternità. Lo spirito
di Babele è l’antitesi dello Spirito di Pentecoste (Atti 2, 1-12), del disegno di
Dio per tutta l’umanità, vale a dire l’unità nella diversità. Solo uno spirito di
concordia, che superi divisioni e conflitti, permetterà all’umanità di essere autenticamente
un’unica famiglia, fino a concepire un nuovo mondo con la costituzione di un’Autorità
pubblica mondiale, al servizio del bene comune.